Il godese Alessandro Orlati dietro agli effetti speciali della nuova serie tv western «The Dirty Black Bag»

Romagna | 17 Aprile 2022 Cultura
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Federico Savini
«La cosa che può suonare paradossale, per il modo in cui si usano oggi gli effetti speciali nel cinema e in tv, è che tante volte l’effetto migliore è quello che non vedi. In gergo noi parliamo di “cosmesi delle immagini”, perché nella filosofia produttiva di oggi quasi ogni fotogramma di un film viene ritoccato in post-produzione, o comunque potrebbe esserlo. Un esempio lampo? I condizionatori. Non ci si fa caso, ma riempiono il paesaggio metropolitano. Se devi girare una serie ambientata anche solo negli anni ‘80, beh, devi prepararti a cancellare decine di condizionatori prima di avere il prodotto finale». Avevamo lasciato Alessandro Orlati alcuni anni fa dietro alla produzione di uno spot animato di Trenitalia e oggi lo ritroviamo più indaffarato che mai nel mondo del cinema e delle serie tv, in particolare come VFX producer della serie western «That Dirty Black Bag», non ancora uscita in Italia anche se prodotta dalla «nostra» Palomar. Con un’esperienza ormai ventennale nel cinema, dapprima come regista e sceneggiatore di cortometraggi a indirizzo horror (deliziosa in particolare la sceneggiatura di Vai col liscio, che vede letteralmente Raoul Casadei e Pif in mezzo agli zombi!), Orlati in questi anni ha attraversato l’Italia per lavoro, approdando a Roma dalla natìa Godo (e dopo essere passato anche dalla Liguria e dalla Lombardia), anche perché il suo lavoro di producer degli effetti speciali è diventato ormai uno standard nel settore, in forte crescita, delle produzioni televisive. «In Italia abbiamo artisti che sono eccellenze internazionali - spiega Orlati -, basti pensare al ravennate Giuseppe Tagliavini, che è in forze alla Weta Ditigal, ma c’è anche chi lavora alla LucasArts e a me è capitato di collaborare con gente che aveva messo le mani sul Re Leone…».
Come ti sei mosso negli ultimi anni?
«A Milano per qualche tempo ha lavorato in post-produzioni cinematografiche, poi sono tornato all’animazione, trasferendomi a Roma per lavorare con la Rainbow, la società delle Winx, per intenderci. Ho supervisionato la produzione della divisione animazione Cgi occupandomi di due stagioni e mezzo di un cartoon della Disney Plus e devo dire che la pandemia non ha affatto fermato il mio lavoro».
Eppure il cinema è stato colpito eccome dal Covid…
«Le sale e i set certamente sì, ma il lavoro per l’animazione e gli effetti speciali si può fare da casa, con un buon Pc, quindi noi abbiamo sempre lavorato. E sempre di più, perché in pandemia la domanda di contenuti video non ha fatto che crescere, dato che il pubblico era sempre più chiuso in casa con le piattaforme».



Di cosa ti sei occupato per «That Dirty Black Bag»?
«Intanto per me è stato un po’ un ritorno alle origini, al cinema “dal vero”, diciamo. Lavoro da nove mesi per la LightCut Film, come producer VFX anche per serie Rai e Netflix e per il cinema. Questa serie western è una bella scommessa, un’anomalia sulla carta per il panorama italiano, che per lo più è autoreferenziale e praticamente ha esportato solo Gomorra e Montalbano. In questo caso il progetto e la visione sono internazionali, tanto che la serie è uscita nei paesi anglofoni su Amc ma non ancora in Italia. Nasce da un corto di Mauro Aragoni, che poi ha sviluppato il progetto dopo averne di fatto realizzato un “pilota”, e il cast coinvolge attori che hanno già recitato in serie di successo come Vikings e Preacher. È stata girata tra la Puglia, il Marocco e la Spagna, dove sono stati riciclati set di vecchi film western».
Si parla esplicitamente di «spaghetti western». Secondo te cosa c’è di italiano, nell’approccio al western, in questa serie?
«Intanto è un western che si prende delle libertà, come hanno sempre fatto gli italiani con questo genere quintessenzialmente americano. Sotto alcuni aspetti la trama è pure classica, ma ci sono anche tante contaminazioni, un immaginario molto sporco e parentesi sorprendentemente romantiche».
Il tuo lavoro?
«In questa serie sono stati realizzati 870 interventi; ne ho revisionati la metà, producendone direttamente 136. Moltissime cancellazioni ma anche scenari tipo cascate o treni in Cgi. E poi ferite, lanci di coltelli e scene d’azione in genere. Anche qualche scena totalmente girata in computer grafica, perché difficile da realizzare diversamente. Mi fa piacere segnalare il contributo di Massimo Cipollina, che è stato supervisore degli effetti direttamente sul set, oltre che supervisore di tutti gli effetti realizzati».
Tempi?
«Per la post-produzione di questi 8 episodi il lavoro è partito a metà novembre e si è concluso a metà marzo, coinvolgendo una decina di case di postproduzione».
Prossimi progetti?
«Ora siamo al lavoro sulla seconda serie Rai Imma Tataranni. Ho lavorato anche a un film italiano di ottimo livello, di cui non posso fare il nome, ma secondo me sarebbe degno di concorrere a Cannes. Vedremo».
È inevitabile che ormai ogni fotogramma venga ripassato in post-produzione? Possibilità di rigetto del pubblico?
«Diciamo che questa forma di “cosmesi” è assodata nel cinema contemporaneo e non credo ci sarà un rigetto. Prendi un grande film come Seven: potentissimo e pieno di dettagli anche per lo standard di oggi. Beh, era tutto analogico. Oggi non lavora più nessuno così, se non per un vezzo autoriale, ma si tratta di nicchie, di scelte estetiche consapevolmente controcorrente. Io peraltro resto molto legato al cinema analogico, lo dico contro il mio interesse, ma è proprio cambiato il modo in cui si lavora. Il Grande Gatsby con DiCaprio, del 2013, ha praticamente segnato la fine della figura professionale del location manager: in quel film gli scenari sono tutti fatti al computer. Ormai costa relativamente poco e ovviamente dà grandi possibilità».
Come vedi il futuro delle sale?
«È difficile pronunciarsi in assoluto, ma direi che le sale e le piattaforme tv hanno raggiunto una differenziazione piena. Al cinema si va più che altro a vedere film di grande effetto, supereroistici o meno, ai quali praticamente non puoi togliere la parte degli effetti, sennò verrebbe a mancare proprio il senso ultimo del film! Le serie tv, invece, spesso sono basate soprattutto sulla scrittura e su trame complesse. Suona un po’ paradossale per chi ha vissuto nel mondo dell’analogico, ma oggi se si cerca qualche cosa di impegnativo il più delle volte è meglio rivolgersi a una serie piuttosto che a un film in sala. Poi avanzano comunque delle perplessità e se vuoi delle contraddizioni, a cominciare dal fatto che nel cinema si lavora a livelli tecnici pazzeschi, in termini di qualità dell’immagine sul singolo pixel, ma poi la fruizione di quasi tutti i giovani è sui cellulari o quando va bene sui tablet. Nel complesso mi sembra però che si sia raggiunto un equilibrio fra i due mezzi, o per lo meno obiettivi pienamente distinti».
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