Riccardo Isola - Si e’ svolto dal 19 al 23 novembre, a Punta del Este in Uruguay, il 41° Congresso mondiale della vite e del vino e la 16ma Assemblea generale dell’Organizzazione internazionale della vite e del vino (Oiv). Questa è un’organizzazione intergovernativa che tratta argomenti tecnico-scientifici sul settore vitivinicolo e cerca di tradurre le relative informazioni in leggi e normative che siano il più possibile condivise dai vari Paesi aderenti. Qui, per l’Italia ha partecipato una delegazione tecnico-scientifca tra cui vi era Antonio Venturi, attuale presidente del Parco della Vena del Gesso romagnola già funzionario della provincia di Ravenna in tema agricolo.
Venturi, la sua presenza si è concretizzata in una relazione dedicata al «caso Italia». Dal punto vitivinicolo qual è la situazione?
«Il nostro Paese è tra le più importanti e riconosciute potenze enologiche nel mondo ma non possiamo non riconoscere come ci siano ancora ombre sullo stato dell’arte della vitivinicoltura del Belpaese»
Quali?
«In primis esiste il rischio di trasferimento di vigneti tra centro-sud e nord, la massiccia presenza di poche varietà, una crisi della vivaistica, l’erosione della base ampelografica (504 vitigni registrati), la presenza di gransdi aziende specializzate in precise tipologie di vini, costi finanziari elevati, una visione individualista e la vocazione al gigantismo di alcune imprese fino ad arrivare ad un sistema poco integrato con il contesto mondiale».
Quindi quali sono i problemi maggiori per l’Italia e la Romagna del vino?
«In generale c’è una sempre crescente contrapposizione fra un modello di sviluppo basato su vitigni internazionali e a forte capitalizzazione finanziaria e un’altro piu’ basato sulla valorizzazione del territorio e delle sue tipicità. Quest’ultimo, che riguarda la viticoltura italiana e anche quella romagnola, ha bisogno di una crescita più sinergica e omogenea delle diverse realtà territoriali e necessita sempre più di ricerca scientifica, informazioni e dati ufficiali su cui basare la programmazione del settore senza burocratizzarlo ulteriormente».
Oltre alle grandi aziende e gruppi cooperativi, c’è spazio per le piccole e territoriali produzioni del made in italy nel mondo?
«Guardando allo stato dell’arte potrei dire di si, ma serve una strategia d’iniseme calibrata e combinata. Massa critica, prezzo, logistica, investimenti sono alla base di un corretto posizionamento della variaegata qualità enologica italiana nel mondo. Non ci sono solo Piemonte (Barolo, Barbaresco), Toscana (Chianti, Brunello), Veneto (Amarone e ultimamente Prosecco) che possono giocare d’attacco. Il Sangiovese romagnolo ha potenzialità ma serve un cambio di rotta e mentalità che siano quanto più condivise tra grandi e piccoli. Bene ha fatto chi ha pensato ad uno spumante romagnolo (Novebolle), anche se a dir la verità bisognava forse pensarci prima, ma non basta».
Cosa serve quindi per conquistare nuove fette di mercato internazionale?
«Come dicevo prima bisogna fare squadra e sistema. Il Paese Italia deve avere sempre di più un’unità di intenti che purtroppo oggi, all’estero, non viene percepita. La Francia, lo ha fatto da tempo, l’Italia, e la Romagna con lei, ha bisogno di cambiare rotta».