«Il dna faentino del Cocoricò» nel libro di Ferruccio Belmonte

Romagna | 21 Febbraio 2020 Cultura
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Federico Savini
«Celebravamo le arti dionisiache. Dico davvero, Dioniso era in riviera nei primi anni ‘90, ci ha fatto ballare come pazzi per alcuni anni, ad ogni ora del giorno e della notte. Poi, a un certo punto, si è stancato e se n’è andato». A sentirlo parlare, Ferruccio Belmonte sta raccontando la realtà, senza voli pindarici. D’altra parte, essere il direttore artistico di una cosa come lo fu il Cocoricò dei primi anni - è facile immaginarlo - è certamente roba che lascia il segno. Per tutta la vita. Anche (ma non solo) per questo Ferruccio Belmonte ha appena dato alle stampe E’ amore o è follia? Cocoricò 1991-1992, volume curato da Jacopo Lega di Amphibia (sul cui sito il libro è reperibile), con contributi di Roberto Spallicci di Club to Club, nel quale ha raccolto foto, testimonianze, riflessioni, memorabilia, biglietti, flyer e tutto quello che può cercare di raccontare un’esperienza unica, probabilmente l’ultima grande incarnazione dell’utopia della nostra riviera, terra che nell’avere letteralmente inventato «la California» lì dove le spiagge non erano certo belle come quelle del meridione o delle isole del mediterraneo, ha più volte dato prova di saper costruire i sogni sul nulla, o quasi.
Il librò sarà presentato venerdì 21 a Faenza, al ClanDestino alle 21, dopo le prime presentazioni a Torino e Palermo e in attesa di quella milanese del 5 marzo, anche perché questo libro - a tutti gli effetti figlio dell’esperienza del Mei Future Festival del 2018, quando Lega e Belmonte si conobbero e il secondo fece una mostra con i suoi «ricordi» del Cocoricò, organizzando a Faenza anche un memorabile dj-set del grande Leo Mas - con il ClanDestino ha un legame particolare.
«A metà degli anni ‘80 era la nostra “base” - ricorda Ferruccio Belmonte -. Questo libro è per me l’occasione di un bellissimo viaggio nel tempo che mi porta indietro di 25 anni».
Come arrivi da Faenza fino al Cocoricò?
«Cominciammo come dj e animatori di serate. In particolare io venni trascinato nel mondo della notte da Pippo Pagano, batterista e amico preziosissimo insieme al quale cominciai a costruire un vero e proprio gruppo di musicisti e dj per movimentare le discoteche dell’epoca. Ma la vera particolarità è che non eravamo solo musicisti. Ricordo che c’era un grande fermento poliglotta, ad esempio impazzivamo per la new-wave spagnola dell’epoca, questo anche perché nel nostro giro si inserirono tanti studenti stranieri che frequentavano le scuole ceramiche di Faenza. Questo melting pot ad alto tasso di creatività e apertura culturale ci portò ad animare dapprima il Cap Creus, per spostarci quindi al Cotton Club di Cervia e approdare infine all’avventura del tutto nuova del Cocoricò».
Come si distinse, da subito, il «tempio del ballo» riccionese?
«Il contributo degli studenti d’arte fu determinante, dagli arredi alle icone, la stessa cura per i flyer delle serate proiettava l’intrattenimento in una dimensione assolutamente artistica che si comprendeva all’istante, e faceva sì che tutti volessero esserci, per partecipare al mito in ascesa del Cocoricò. Dj come Gianni Parrini e Stefano Bratti furono con noi da subito, e si aggiunsero animatori molto creativi. La fusione tra il mondo della ceramica d’arte, che era in grande fermento, e quello della musica da ballo che stava evolvendo a grande velocità rese possibile lo sviluppo del Cocoricò».
Cosa differenzia il Cocoricò da altri locali leggendari dell’epoca precedente, come il Cosmic o la Baia degli Angeli?
«Il periodo funky, a cui ti riferisci, fu mitico per davvero. Oltre alla musica c’era grande personalità in tutto quel mondo, un immaginario molto suggestivo. Però mancava quell’immersione nell’arte a 360° che portammo noi al Cocoricò negli anni ‘90. Andammo molto oltre la musica, con le arti visive e il teatro, perché davvero gli artisti che si proponevano gratis pur di potersi esibire al Cocoricò furono tanti, ci travolsero! E ti parlo di grandi nomi. Io fu art director dal ‘90 al ‘93 e a Riccione suonarono Grace Jones e Frankie Knuckels, senza contare il consolidamento delle carriere di Cirillo, Ralf, Parrini, Bratti, Noferini e altri giganti della consolle. Lucio Dalla è venuto più volte, anche a girare dei clip, Gautier e Moschino frequentavano la discoteca, quindi anche il mondo della moda ci fu vicinissimo».
A voi era certamente chiaro che quello che facevate era «cultura». Ma fuori dal vostro circuito?
«Nella fase iniziale, quella dell’apoteosi, fu sorprendentemente facile far capire il valore di quel che accadeva al Cocoricò. La miscela era davvero esplosiva e se pensi a quel che vuol dire il supporto dei grandi nomi della moda capisci al volo che tutto quanto si traduceva in grandi benefici anche economici per tutta la riviera. Quell’onda creativa fu uno tsunami che per alcuni anni attraversò l’Italia. I detrattori del mondo delle discoteche ci sono sempre stati e c’erano anche all’inizio degli anni ‘90, ma prima che le loro ragioni acquistassero qualche fondamento son passati anni».
Come si è arrivati al declino?
«Al netto dei primi, incredibili anni, il Cocoricò è stato davvero un punto di riferimento internazionale, per merito, fino al 2000. Poi la spinta creativa ha gradualmente ceduto il passo alle derive commerciali, però io penso che più che al locale, il declino sia imputabile a scelte politiche sbagliate che si fecero all’epoca. Un grande sindaco come Terzo Pierani (in carica a Riccione dal ‘75 al ‘91, nda) venne osteggiato da poteri più altolocati (lo stesso sindaco ha dichiarato più volte di essere stato “spodestato da un colpo di Stato”, nda). Pierani voleva portare il mondo a Riccione, con l’aeroporto e l’attrattività crescente della nostra riviera. Non fu sostenuto dai politici e presso l’opinione pubblica non passò il risvolto economico delle sue idee. A Riccione cominciavano ad arrivare voli charter con pubblico e dj che venivano per il Cocoricò, ma mentre in Italia i charter furono scoraggiati, a Ibiza nasceva il ministero delle discoteche e oggi il loro aeroporto ha 40 gate, potendo pure contare su un mare più bello del nostro. Mi sembrano evidenti le differenze».
Oggi, lontani dalle polemiche di allora e con un Cocoricò che ripartirà in aprile, con che spirito ripensi a quegli anni?
«Ripercorrere quell’avventura mi dà grande gioia. L’interesse di Jacopo Valli, che ha la metà dei miei anni, per quello che realizzammo mi ha dato grande forza. Il suo entusiasmo mi ha praticamente costretto a riaprire i miei archivi per guardare al domani, e di questo lo ringrazio. Non conosco bene Enrico Galli, che farà ripartire il Cocoricò, ma quello che so di lui promette molto bene».
I primi ‘90 sono irripetibili?
«Non per forza, ma non ci si può illudere: anche nel migliore dei casi serviranno anni. Il modello delle discoteche va ripensato prima di tutto politicamente. Servono imprenditori seri e capaci e va progettato un piano che richiami con continuità un pubblico internazionale. Poi andrebbe fatto un ragionamento sul patrimonio edilizio, sul recupero delle colonie che sono patrimoni riadattabili in chiave culturale. Con queste direttive e la volontà politica di investirci si potrebbe fare molto».
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