Il cesenate Paolo Santolini è il regista del «doc» su Pantani, al cinema dal 18 al 20 settembre

Romagna | 18 Ottobre 2021 Cultura
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Federico Savini
«Una delle cose a cui tenevo di più era ricordare alla gente quanto fosse stato bello avere Marco Pantani. La felicità che ha dato merita un ricordo limpido, non intaccato da tutto quello che si è scritto e detto su un campione capace di imprese d’altri tempi; quelle che ti facevano alzare dalla sedia mentre lui volava sulla Luna. Credo siano sette in tutto i ciclisti che hanno vinto Giro e Tour insieme. È un’impresa ai limiti delle possibilità umane e la gente lo capiva, e gioiva con lui. Ho scoperto che aveva pure dei fan club in Cina. Vuoi che sia un caso?». Paolo Santolini è cesenate, e anche per questo è più titolato di altri a raccontare «Marco, più che Pantani», come gli ha detto Tonina Pantani, la madre del campione, dopo aver visto il primo montaggio del suo documentario Il migliore, Marco Pantani, che grazie a Nexo Digital sarà in 200 sale italiane come film-evento da lunedì 18 a mercoledì 20 ottobre.
Prodotto da Okta Film con Rai Cinema, il film non è affatto il primo che cerchi di raccontare il Pirata di Cesenatico (ha molto a che fare col nostro territorio anche il recente Il Caso Pantani di Domenico Ciolfi), ma forse è davvero il primo ad avere rinunciato in toto ai sensazionalismi e soprattutto agli aspetti cronachistici, per concentrarsi sul Pantani-uomo, attraverso il ricordo di chi gli è stato più vicino e il vuoto che ha lasciato. «Documentarista, e quindi autore, lo sono diventato un po’ alla volta - racconta Santolini -. Io nasco come operatore e soprattutto a Bologna negli anni ‘90 ho fatto tanta tv, in particolare con Patrizio Roversi e Syusy Blady in Turisti per caso, che era già un programma che mi concedeva una certa creatività. Quindi sono approdato gradualmente al documentario, che era quello che mi interessava (vedi Domani torno a casa, del 2008, su un ospedale di Emergency a Kabul, o Così in terra, del 2018, dedicato a Don Ciotti, nda)».
Il tuo film non sembra né un’agiografia né un’inchiesta sulle vicende di Pantani, ma forse più sulla comunità che ha perso un simbolo. Era una prospettiva che mancava?
«Diciamo che è grosso modo come dici: raccontando una persona ho cercato di raccontare una comunità. Tutto è nato dal fatto di conoscere molto bene Moreno “Jumbo” Lotti e Roberto Manzo, grandi amici di Pantani. Dopo la sua morte, sapendo del mio lavoro, mi chiesero di lavorare a un film su Marco, ma per tanti motivi la cosa non si concretizzò».
Non era il momento adatto?
«Diciamo di sì, anche se forse io potevo essere la persona adatta, se non altro perché le riprese della famosa intervista con Gianni Minà che Marco rilasciò tre giorni dopo il presunto doping a Madonna di Campiglio le ho fatte io. Ho “vissuto” quell’intervista e dico a tutti di riguardarla, su Youtube, perché lì Marco dice tutto quel che c’è da sapere su di lui, grazie anche alla bravura di Minà. Nel film ne ho utilizzato due estratti ma, insomma, se avessi voluto farne un film-inchiesta avrei dovuto, e probabilmente anche potuto, farlo subito, o comunque anni fa. Ma io non sono un giornalista d’inchiesta, non ho quelle competenze e mi interessa altro. Come ho detto, mi interessava il lato umano non solo del Pirata, ma di chi lo ha amato per davvero».
Come hai proceduto?
«A livello di sostegni, ne ho parlato ai responsabili di Rai Cinema che mi hanno supportato all’instante, mentre in termini di realizzazione e riprese sono stato a Cesenatico alcuni mesi, nell’inverno del 2019, conoscendo e intervistando i suoi amici, il primo allenatore e la madre. La loro vita è stata toccata, in parte stravolta dalla morte di Marco. Ce l’hanno dentro, per loro non è una vicenda chiusa».
È stato facile ottenere la loro fiducia?
«No, perché nonostante le garanzie che gli davano Jumbo e Manzo, tutti avevano già avuto precedenti esperienze cinematografiche e giornalistiche su Marco, e non ne conservavano un bel ricordo. Sono comunque riuscito a entrare in confidenza con loro, anche perché il materiale che ho girato, tantissimo, non so se lo chiamerei “una serie di interviste”. Parliamo di serate di 3-4 ore, dalla cena fino a notte fonda, con poche domande da parte mia e un gran desiderio, da parte loro, di raccontare. Non volevo fare un film didascalico o men che meno cronachistico o estetizzante. Il montaggio, curato a distanza da Letizia Caudullo, che peraltro è stata bravissima e ha portato una delicatezza femminile in un film per altri versi molto maschio, incentrato sulla Romagna del ciclismo, ha lasciato fuori anche intere interviste e spezzoni visivamente molto belli, ma inappropriati per quello che cercavo».
Che era fotografare una comunità alle prese con un trauma, giusto?
«Direi quasi una famiglia. Spesso mi interessavano più i loro silenzi che non le cose che dicevano. Sono loro che hanno fatto il film, che ha un taglio impressionista, un flusso di emozioni, sguardi e aneddoti nel quale di mio ho cercato di mettere solo la professionalità, non le opinioni o il punto di vista. L’ambientazione è volutamente invernale e notturna, anche per dare conto della riviera per chi ci vive tutto l’anno, che di solito non è il punto di vista dei forestieri, attratti dagli aspetti folkloristici. C’è molta Romagna in questo film, c’è la doppia vita che di chi vive al mare. E poi ho cercato di raccontare cose universali, come l’amicizia e il vuoto che lascia la morte di un figlio».
A proposito, che rapporto hai con Tonina Pantani?
«Un rapporto fatto di discrezione e grande rispetto. Non posso dire di averla frequentata a lungo, ma l’ho contattata subito, perché una sua eventuale contrarietà avrebbe bloccato sul nascere il mio progetto. Se avessi concentrato tutto su di lei sarebbe nato un altro film. È stata comunque la prima a vederlo completo e mi ha detto che era il primo su “Marco”, non sul Pirata».
Tra gli intervistati chi ti ha colpito di più?
«Ribadito che alla fine ho concentrato il film su relativamente poche persone, tutte quindi molto significative, direi che l’ottantenne Pino Roncucci, direttore tecnico della squadra in cui Marco correva da adolescente e a tutti gli effetti suo mentore, è la persona che mi ha indicato in via definitiva il modo in cui dovevo lavorare a questo film. Uomini di sport come lui non ce ne sono più; parliamo di una generazione che incarna rispetto, valori e una professionalità veramente d’altri tempi. Per Marco è stato un padre. E lui, come tutti gli altri, almeno un po’ si sente colpevole per com’è finita. Tutti loro, quelli della cerchia ristretta, della “famiglia” di Marco, non hanno mai smesso di domandarsi se per lui non si potesse fare di più, anche quando scelse di isolarsi dal mondo e dagli affetti».
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