IL CASTORO | Valentina Brinis (Open Arms): «Agire per salvare vite in pericolo»

Romagna | 23 Dicembre 2022 Blog Settesere
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Irene Roncasaglia
La situazione dei migranti, nel canale di Sicilia, è tornata recentemente al centro delle cronache. La sorte della nave Ocean Viking, della ong Sos Méditerranée, ha riacceso le tensioni tra Francia e Italia ed è stata un banco di prova per il governo Meloni.
La redazione del Castoro ha intervistato Valentina Brinis, 39 anni, laureata in sociologia, oggi advocacy officer e project manager della ong Open Arms, che conosce dall’interno le problematiche connesse alla gestione dei flussi migratori. Le ha raccontate nel libro Come onde del mare, pubblicato dall’editore Castelvecchi.
Come funziona l’associazione Open Arms?
«Open Arms è un’organizzazione umanitaria che opera da 7 anni nelle rotte migratorie del Mediterraneo centrale e ha salvato, grazie a fondi che derivano principalmente da donazioni di privati cittadini, più di 65mila vite. La ong è nata nel 2015, a seguito di un’emergenza umanitaria causata dalla guerra civile siriana, che ha dato origine a milioni di profughi. La rotta verso l’Europa prevedeva come tappa l’isola greca di Lesbo, a 9 km dalla Turchia. Molti migranti naufragavano in quel tratto di mare, per via delle imbarcazioni sovraccariche o dei gommoni sgonfi. L’immagine che ha colpito i primi volontari della nostra associazione è quella di Alan Kurdi, un bimbo siriano di tre anni, ritrovato senza vita su una spiaggia turca».
A fronte delle molte vite salvate, quante sono andate perse?
«Nonostante i salvataggi in mare operati da Open Arms e da altre ong, dal 2015 si sono verificati nel Mediterraneo più di 19mila casi tra morti e dispersi. Migliaia di persone, quest’anno 80mila (ad oggi), salpano dalla Libia, tentando di attraversare il mare, per giungere in Europa e per chiedere lo stato di rifugiati, perché nel paese di provenienza si sentono perseguitati o insicuri per motivi religiosi, politici, ideologici o sanitari. Per questo decidono di provare a oltrepassare i confini e chiedere protezione altrove».
Cosa vuol dire essere un operatore umanitario?
«Gli operatori umanitari lavorano per migliorare le condizioni civili e sociali in tutte le nazioni, mediando tra le varie culture del mondo. Io lavoro con le istituzioni, in modo da trovare soluzioni a difficoltà globali, mettendo a punto politiche internazionali, accordi, percorsi di integrazione. L’obiettivo è costruire un percorso che agevoli la creazione di una società aperta e multiculturale, in grado di accogliere le diverse identità, senza discriminare nessuno. Per fare ciò è necessario lavorare su tutti gli ambiti del reale, dato che il fenomeno migratorio coinvolge aspetti ambientali, sociali, umanitari, politici ed economici. Un passo importante sarebbe sicuramente far approvare il riconoscimento della formazione estera. Il mio compito è quello di fare pressione sulle istituzioni, affinché riconoscano i titoli di studio conseguiti in altre nazioni. Inoltre, dato che il visto è un lasciapassare necessario per oltrepassare i confini, si stanno progettando accordi internazionali per promuovere visti di studio, per concludere la formazione in territorio europeo».
Quali sono le maggiori difficoltà che devono affrontare i profughi? Come si presenta, sotto il profilo legale, l’accoglienza in Italia e in Europa?
«Per entrare in Europa sono necessari passaporto e visto, i quali vengono erogati in modo non proporzionale a seconda della nazione di provenienza. Ciò impedisce di fatto l’uscita da molti paesi non sicuri, se non attraverso le pericolose rotte migratorie. La via del mare è il tratto conclusivo del lungo viaggio per giungere in Europa, caratterizzato da una faticosa navigazione, che avviene su imbarcazioni sovraccariche e non controllate. Il diritto internazionale del mare regola e codifica i comportamenti e i provvedimenti che ogni singolo stato deve attuare. L’Italia è tra i primi paesi che hanno sottoscritto le convenzioni sui diritti della navigazione, che regolano l’assistenza in mare, attuando questo principio attraverso la protezione della vita di tutte le persone coinvolte, comprese istituzioni, operatori e rifugiati. Chi riesce ad arrivare sul suolo dell’Ue è sottoposto al parere di una commissione che ne valuta la necessità di protezione per un determinato periodo. Un progetto delle Nazioni Unite, ora in via di sviluppo, facilita inoltre il rimpatrio volontario assistito».
Come spiega la recente situazione critica emersa al porto di Catania?
«Si è verificata una procedura anomala, firmata dai ministri dei trasporti, degli interni e della difesa, dato che le normative internazionali prevedono che siano salvati tutti i passeggeri, facendoli scendere sulla terra ferma in un luogo in cui la vita non sia in pericolo. Abbiamo impiegato giorni per convincere l’Italia ad aprire il porto catanese alle navi Humanity 1 e Geo Barents e quello di Reggio Calabria alla nave Rise Above, mentre la Ocean Viking si è diretta verso Marsiglia, data la disponibilità mostrata dalla Francia nell’accogliere i profughi».
Come valuta l’incarico di Salvini al ministero delle Infrastrutture e l’indirizzo del nuovo governo sull’immigrazione?
«Il processo che ha coinvolto l’attuale ministro delle infrastrutture, Matteo Salvini, per aver negato nell’estate 2019 lo sbarco dei migranti trasportati da una nave Open Arms è ancora aperto e l’ultima udienza si è tenuta il 2 dicembre. Credo che questo contrasto sia stato inevitabile, considerando che quell’anno, appena ottenuto l’incarico, ha manifestato come primo obiettivo quello di combattere le ong. La linea operativa del nuovo governo mi pare poi evidente fin dal principio».
Pensa che i flussi controllati possano essere una soluzione?
«In Italia manca un flusso di ingresso per lavoro e quindi anche la possibilità, per chi vive all’estero, di chiedere l’autorizzazione a entrare con un visto, che consenta di lavorare per sei mesi, un anno, e poi tornare al proprio paese. Una chance in tal senso è contemplata dal decreto flussi, con cui sono state fissate le quote dei lavoratori stranieri che possono fare ingresso in Italia, ma attualmente sono insufficienti rispetto al numero dei richiedenti e per questo motivo molte persone si ritrovano a presentare la domanda di protezione».
Come dovremmo rapportarci dunque col fenomeno migratorio?
«Il mondo attuale è fatto di diaspore e il tema dell’immigrazione deve essere colto dal paese ospitante come un’opportunità importante, tanto quanto lo è per gli ospitati. Può rivelarsi uno stimolo culturale, ma anche essere una soluzione al problema demografico, alla scarsa natalità, alla disoccupazione: infatti in Italia la manodopera proviene per la maggior parte da migranti che danno un apporto decisivo all’economia».
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