IL CASTORO | Un ex detenuto dell’E.T.A. racconta gli anni della sua militanza

Romagna | 13 Giugno 2023 Blog Settesere
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Artea Calderoni
È il 20 ottobre 2011, Eta rilascia al quotidiano spagnolo Gara il comunicato con cui, dopo mezzo secolo, annuncia la fine dell’attività armata. Eta, acronimo di Euskadi Ta Askatasuna (Paesi Baschi e Libertà), autodefinitasi «Movimento rivoluzionario basco di liberazione nazionale», è stata un’organizzazione armata di matrice nazionalista di Euskadi (i Paesi Baschi in lingua basca), territorio compreso tra Spagna e Francia.
La storia del gruppo è iniziata nel 1958, in piena dittatura franchista, con un doppio obiettivo: rendere i Paesi Baschi indipendenti, con un sistema di governo democratico, decentralizzato e rappresentativo, e costruire un modello di società più giusto, orientato al socialismo. Lingua, cultura e diritti del popolo basco, considerati il nucleo della sua identità, erano dunque da difendere con tutti i mezzi necessari - senza scartare l’uso delle armi - dall’oppressione del regime di Francisco Franco e poi dello Stato spagnolo.
Su questo tema, la redazione del Castoro ha intervistato Iñaki Pujana Alberdi, ex militante in Eta, detenuto per 26 anni, originario di Otxandio, piccolo paese nella provincia basca di Biscaglia.
Per quali reati è stato condannato?
«Sono stato arrestato in Francia il 23 dicembre 1987 e condannato nel 1989 a cinque anni di carcere per associazione a delinquere, possesso di armi e munizioni, uso di documentazione falsa, resistenza all’autorità e lesioni. Il 7 ottobre 1991 sono stato estradato dalla Francia e condannato in Spagna a 79 anni per possesso di esplosivi, tre delitti di strage, un assassinio e per attentato. Sono stato liberato in Spagna il 21 febbraio 2013».
Perché ha iniziato la militanza e a che età?
«Non so esattamente a che età ho iniziato la mia militanza, credo sui 22 anni. Degli amici del mio paesino che erano già dentro l’organizzazione mi proposero di entrare come volontario e accettai. Alla fine siamo il prodotto delle circostanze e del contesto nei quali si trova la società in cui viviamo. Io sono nato in un paesino che, dopo la guerra civile, viveva soffrendo la repressione del franchismo, che infieriva sia sul piano individuale che su quello collettivo, opprimendo la lingua, la cultura e l’identità del nostro popolo. Eta esisteva già prima che io nascessi, perciò la sua lotta l’abbiamo vissuta fin da bambini come qualcosa di nostro e l’incorporazione all’organizzazione era una cosa usuale».
Era cosciente di ciò che poteva comportare entrare in Eta?
«Sì, ne ero molto consapevole e ho avuto sempre chiare quali potevano essere le conseguenze finali: l’esilio, il carcere o la morte. È vero però che uno non sa cosa vuol dire essere in esilio e in carcere fino a che non ci è dentro, ma dal punto di vista teorico mi era chiaro».
Qual era la situazione politica negli anni in cui ha militato?
«Con la morte del presidente del governo spagnolo, l’ammiraglio Carrero Blanco, il 20 dicembre 1973, in seguito a un attentato Eta e una volta deceduto il dittatore Franco, due anni dopo, iniziò a prendere corpo La Reforma - il passaggio dalla dittatura alla democrazia -, che si concluse con l’approvazione, tramite referendum, dell’attuale Costituzione spagnola. Nnon fu approvata dai cittadini dei Paesi Baschi perché considerata pseudo democratica: non aveva introdotto una discontinuità con il franchismo, infatti furono proprio i franchisti a elaborarla, concedendosi l’amnistia e perdonandosi tutti i loro crimini. Cambiarono le uniformi della polizia e dell’esercito, il Tribunale dell’Ordine Pubblico cambiò nome in Audencia Nacional, però il resto rimase uguale, gli stessi giudici, poliziotti e militari. Per noi rimaneva la stessa storia, continuavano a non riconoscere la sovranità basca».
Quali erano gli obiettivi dell’organizzazione?
«Durante la mia militanza gli obiettivi di Eta erano rendere i Paesi Baschi indipendenti e socialisti, però l’utilizzo della lotta armata aveva come scopo raggiungere gli obiettivi della cosiddetta Alternativa Kas, il coordinamento dei movimenti patriottici e socialisti, che voleva libertà democratiche, amnistia, misure per migliorare le condizioni di vita delle masse popolari e soprattutto della classe operaia e inoltre scioglimento dei corpi repressivi, riconoscimento della sovranità nazionale di Euskadi, che avrebbe comportato il diritto del popolo basco di disporre di totale libertà sul suo destino nazionale e sull’eventuale creazione di uno Stato proprio. Infine si voleva ottenere lo statuto di autonomia delle province di Alava, Gipuzkoa, Navarra e Biscaglia».
Eta ha raggiunto i suoi obiettivi?
«È evidente che non li ha raggiunti tutti, però ha inciso in modo determinante nella realtà attuale di Euskadi. In questo senso possiamo ritrovarci in quello che ha detto nel 1991 Xabier Arzalluz, presidente del partito nazionalista basco: “Non conosco nessun popolo che abbia raggiunto la sua liberazione senza che alcuni agiscano e altri discutano. Alcuni scuotono l’albero, senza spezzarlo, perché cadano le noci e altri le raccolgono per distribuirle”».
Sa com’è stata pianificata la consegna delle armi e perché?
«Quando il 20 ottobre 2011 fu annunciato lo stop definitivo dell’attività armata io ero in prigione e venni a conoscenza della notizia tramite i mezzi di comunicazione. In seguito, ho sentito diverse opinioni sulle circostanze che portarono alla decisione. Con il passare degli anni e per molteplici ragioni, il contrasto armato ha cessato di essere uno strumento determinante per avanzare nel progetto politico del Movimento di liberazione nazionale basca. Sempre di più la gente e la Izquierda Abertzale - la sinistra radicale nazionalista - hanno iniziato a ritenere che quella tappa doveva chiudersi e occorreva continuare a combattere per gli stessi obiettivi, ma senza l’utilizzo di armi».
Come vede gli attuali movimenti della Izquierda Abertzale?
«Con la fine della lotta armata il mondo della sinistra radicale nazionalista ha iniziato un processo di trasformazione, di cambio di paradigma. È stato un processo lungo, però credo che sia terminato in modo positivo. La nuova cultura politica ritengo che permetterà di aggregare forze attorno alla sinistra Abertzale e quest’ultima diventerà l’ideologia egemonica dei Paesi Baschi».
Cosa rimane oggi di Eta?
«Come organizzazione non esiste più, si è sciolta nel 2018».
L’opinione pubblica è cambiata nel tempo?
«Credo che all’inizio ci fossero più persone d’accordo con il ricorso alla lotta armata, ma con il passare del tempo l’appoggio è diminuito. Su quello che ha rappresentato Eta credo che l’opinione che ha la gente sia molto varia: nei Paesi Baschi ci sono pareri di tutti i tipi, a partire da quelli che pensano che fu fondamentale per il progetto di liberazione nazionale e sociale, a quelli che la considerano dannosa».
E i giovani, oggi, cosa ne pensano?
«Credo che i giovani nei Paesi Baschi non conoscano molto la storia di Eta. Se ne sono costruiti un’idea, a seconda dell’ambiente da cui provengono e dai racconti della famiglia».
Ha intrapreso un percorso personale in carcere?
«Io non ho intrapreso nessun percorso personale in carcere. È evidente che non sono più quello che sono stato e nemmeno sarò più quello che sono adesso. Ma questo è così per tutti. La vita è dinamica, prendiamo decisioni costantemente e tutte le esperienze di vita ci rendono ciò che siamo in ogni momento. Io vivo con il presente, ma il mio passato non mi crea nessun problema».
Com’è stato uscire di prigione?
«Dopo tanti anni, quando sono uscito dal carcere e sono tornato a Otxandio, il mio paesino, le emozioni hanno preso il sopravvento su tutto. Incontrare nuovamente la gente, notare i tanti cambiamenti avvenuti è stato incredibile. Non sapevo nemmeno cos’era un cellulare o internet. Ho riscoperto la natura, le montagne, i boschi, i fiumi, il cibo e gli odori. Passati i primi mesi in libertà, la preoccupazione più grande è diventata la ricerca di un lavoro e dei mezzi di sussistenza».




 
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