IL CASTORO | «UE-UK: un divorzio che costerà caro» secondo gli economisti Roberto Gorini e Vera Negri Zamagni

Romagna | 24 Marzo 2022 Blog Settesere
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Giulia Rosetti
Nella notte tra il 31 gennaio e  l’1 febbraio 2020, il Regno Unito ha lasciato definitivamente l’Unione Europea. Nonostante le disastrose previsioni economiche, stilate dagli esperti, sulle possibili condizioni post-Brexit della Gran Bretagna, le ripercussioni reali sono state meno evidenti del previsto. Intoppi, rallentamenti e incertezze sono andati man mano ad accumularsi, senza però provocare un immediato crollo del mercato britannico. Infatti i dati macroeconomici inglesi, come fa notare Roberto Gorini, economista ed esperto di finanza, possono ritenersi soddisfacenti: l’Office of National Statistics (Ons) attesta, a settembre 2021, una crescita del Pil pari al 6,8%, con un tasso di disoccupazione al 4,10% (in Germania si aggira attorno al 5,20%). Ma per gli inglesi non è tutto rose e fiori. Rallentamenti burocratici, scaffali vuoti e file di camion alle dogane, aziende inglesi che spostano la propria sede all’estero e capitali che emigrano da Londra a Francoforte: è il ritratto di un Regno Unito appeso a un filo sfilacciato.
Vera Negri Zamagni, docente di storia economica dell’Universitá di Bologna, pone l’attenzione sull’inconsistenza degli accordi commerciali UE-UK, che «contemplano esclusivamente l’eliminazione di dazi». Anche Gorini fa notare l’esigenza del Regno Unito di siglare accordi bilaterali stato per stato, tentando di incrementare le importazioni e di renderle meno costose. Al momento infatti la complessa burocrazia comporta un rallentamento del commercio e dei servizi, che causa la mancanza di gas nei distributori e merci nei supermercati. Alcune di queste ultime, come pomodori e melanzane, andranno «perse o sostituite», afferma Gorini, poiché troppo costose da importare, in assenza di un mercato unico, e impossibili da coltivare in loco.
Il governo inglese ha cercato di giustificare la mancanza di determinati prodotti nei supermercati e l’aumento dei prezzi con le complicanze dovute alla pandemia di covid. Quest’ultima è servita da scudo e, spiegano Gorini e Negri Zamagni, ha permesso alla Gran Bretagna di siglare accordi commerciali temporanei con l’UE, con l’obiettivo di mitigare le conseguenze dei mesi di chiusura dovuti al lockdown. Sebbene i dati del biennio post-Brexit siano di difficile lettura, la maggior parte degli esperti ritiene che a fine pandemia il calo del mercato britannico sarà evidente.
L’economia europea non ha subito scompensi ma, dal punto di vista politico, l’UE si è mostrata vulnerabile. Il Regno Unito «ha scelto l’identità -continua Vera Negri Zamagni - a discapito del profitto», sottolineando, in comune accordo con Gorini, la difficoltà degli inglesi nel vedere la propria sovranità limitata. L’obiettivo principe della Gran Bretagna, sostiene Gorini, era svincolarsi dalle leggi europee, riuscendo così a velocizzare le decisioni legislative e rendere la burocrazia, almeno in questo campo, più agile.
Sono state le zone rurali a decretare la vittoria del sì al referendum. Queste aree hanno visto volare via la propria ricchezza che, con il passare degli anni, si è concentrata nelle grandi città. L’eccessiva finanziarizzazione del paese ha impoverito le aree stagnanti e, continua Vera Negri Zamagni, la campagna elettorale politica ha indicato come principale colpevole l’UE.
Con un’inflazione che a fine gennaio 2022 ha sfiorato i livelli massimi dall’ultimo decennio (5,4%), le difficoltà del Regno Unito risultano sempre più evidenti. Al momento la linea del premier Boris Johnson risulta inefficace e conservatori e laburisti sembrano spaesati. Probabilmente l’ex primo ministro David Cameron si sta interrogando: se non avesse trasformato un referendum consultivo in confermativo, avrebbe potuto salvaguardare il mercato del proprio Paese, evitandogli una recessione inarrestabile.
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