IL CASTORO | Riesame del 613-bis sulla tortura: salterebbero indagini e processi

Romagna | 19 Dicembre 2023 Blog Settesere
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Matteo Loli
Il termine «tortura» in Italia riporta alla memoria casi tristemente noti, come quello di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e Giuseppe Uva, ma cela sotto di sé una lunghissima lista di nomi che non hanno mai conosciuto giustizia. Tale parola ha dovuto aspettare oltre trent’anni prima di figurare come reato nel Codice penale italiano. È il 10 dicembre 1984, infatti, quando viene approvata la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il cui articolo 1 permette di dare una definizione chiara di ciò che si intende giuridicamente per tortura: «Qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali [..] da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione». La Convenzione prevedeva l’obbligo, per i Paesi membri, di legiferare per rendere la tortura reato punibile secondo il Codice penale. L’Italia ha atteso a lungo prima di adeguarsi e determinante è stata la sentenza della Corte europea dei diritti umani, che nel 2015 ha accolto il ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, una delle vittime della perquisizione alla scuola Diaz di Genova, avvenuta il 21 luglio 2001, alla conclusione del G8. Per i giudici di Strasburgo era stato torturato e i responsabili non erano mai stati puniti, a causa dell’inadeguatezza delle leggi italiane. Finalmente, nel 2017, dopo un lungo iter giuridico, si è giunti all’entrata in vigore dell’articolo 613-bis, con il quale è stato istituito il reato di tortura.
Il parlamento però non ha licenziato la versione del testo proposta originariamente, ma vi ha apportato alcune modifiche significative. Così l’articolo - come afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia - è risultato «frutto di un compromesso» e ciò lo rende più debole e meno efficace giuridicamente. Il reato di tortura, infatti, che nella Convenzione Onu è definito come reato proprio, cioè legato a un principio di autorità del carnefice nei confronti della vittima, nel Codice penale italiano è stato reso reato comune, che può quindi essere commesso da chiunque e depotenziato in materia penale.
La tortura è uno strumento di sopraffazione, che porta ad annichilire la vittima privandola, con la violenza fisica, di qualsiasi forma di dignità. Praticandola non si ferisce solo il corpo del torturato, ma le percosse e le umiliazioni penetrano in profondità fino a minare, in modo drammatico, la stessa psiche della vittima, fino a che, come scrive Luigi Manconi nella prefazione a La tortura oggi in Italia di Lelio Basso, «l’individuo diventa il dolore che patisce». Vengono in mente i versi di Fabrizio De André, che oltre cinquant’anni fa cantava: «Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte mi cercarono l’anima a forza di botte». Versi ritornati più che mai attuali dopo la morte in carcere di Stefano Cucchi.
A soli sei anni dalla pubblicazione dell’articolo 613-bis sulla Gazzetta ufficiale, già vengono avanzate proposte di legge per la sua modifica o abrogazione. È una storia conflittuale quella di Fratelli d’Italia, partito al governo, con il reato in questione: il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato, il 12 luglio 2018, un tweet in cui sosteneva che «il reato di tortura impedisce agli agenti di fare il loro lavoro», scatenando così la reazione delle opposizioni. Nel marzo scorso, poi, il ministro della giustizia Carlo Nordio ha evidenziato come, nella formulazione dell’articolo sulla tortura, siano emerse delle «carenze tecniche di specificità e tipicità», rappresentate dalla genericità del dolo, perché punisce chiunque provochi acute sofferenze fisiche o un trauma psichico a chi è privato della libertà personale o è affidato alla sua custodia. L’assenza di dolo specifico, secondo Nordio, «ha eliminato il tratto distintivo della tortura, rendendo concreto il rischio di vedere applicata questa disposizione in caso di casi leciti di tutela dell’ordine pubblico».
Seguendo questa direzione è stato portato in Senato il disegno di legge intitolato «Modifiche al Codice penale in materia di introduzione di una circostanza aggravante comune in materia di tortura», con il quale si intende abrogare gli articoli 613-bis e ter (istigazione alla tortura), trasformandoli in una semplice aggravante, che prevede l’aumento fino a un terzo della pena.
«L’articolo, per come è formulato adesso, consente all’accusato di appellarvisi in maniera pretestuosa, per cercare di attaccare le forze dell’ordine, che sono piuttosto indifese di fronte ad esso» ribadisce Stefano Bertozzi, consigliere comunale faentino di Fratelli d’Italia. «Auspico –aggiunge - che vengano avanzate proposte concrete, che partano dalla specificità del dolo, riconoscendo che, in alcune situazioni, le forze di polizia possano essere costrette a usare la forza, in modo proporzionato e nei limiti consentiti dalla legge».
Difficile, certo, è individuare e definire qual sia il limite entro cui l’uso della forza, da parte della polizia, è lecito, senza rischiare di cadere nella violenza gratuita. Solo tre anni fa, il 6 aprile 2020, all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, si svolgeva una «perquisizione straordinaria», durante la quale, come mostrano le telecamere di sorveglianza del penitenziario, vari detenuti sono stati malmenati. «Chi vuole abrogare il 613-bis dice che l’obiettivo è salvaguardare le condotte della polizia in situazioni di urgenza, come le rivolte carcerarie. Beh, questo è già previsto: l’uso legittimo della forza è un cardine del diritto penale e dunque non ci si deve preoccupare del fatto che il reato di tortura possa colpire delle condotte lecite» commenta Riccardo Noury.
Con l’abrogazione dell’articolo, la parola tortura scomparirebbe dal Codice penale italiano, rendendo meno efficace il processo di individuazione e giudizio di eventuali responsabili. «Sarebbe una scelta grave sotto il profilo simbolico e politico» chiosa Noury, che aggiunge: «Se non c’è più un articolo che menziona la tortura tutte le indagini e i processi basati su di esso si fermano. Per abrogarlo – conclude - dovrebbero dimostrare che, in questi sei anni di vigenza, è stato impugnato per denunce pretestuose e, se ciò fosse successo, lo dovrebbe accertare un giudice, al termine dell’ultimo grado di un processo, non lo può stabilire un parlamentare».
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