IL CASTORO | Radio Caterina: la speranza appesa alle onde elettromagnetiche

Romagna | 24 Dicembre 2023 Blog Settesere
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Greta Oretti
Ottant’anni fa, l’8 settembre del 1943, venne annunciato quello che passò alla storia come armistizio di Cassibile. «Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta». Furono queste le parole del capo del governo italiano Pietro Badoglio, ai microfoni dell’Eiar. Da questo momento l’Italia, dopo essere entrata in guerra a fianco della Germania il 10 giugno del 1940, cambiò improvvisamente fronte, alleandosi con le forze angloamericane. Ma come si è arrivati a questo punto?
Dopo la caduta del regime fascista, il 25 luglio dello stesso anno, Badoglio e il re si erano preoccupati di evitare qualsiasi ritorsione tedesca, ma in un’Italia dilaniata dalla guerra, che aveva perso intere divisioni in Russia e il controllo di diversi territori coloniali, l’unica opzione rimasta fu quella proposta dal comandante delle forze alleate angloamericane Eisenhower, cioè la capitolazione incondizionata. Così il 3 settembre venne firmato, in segreto, l’armistizio a Cassibile. Una volta annunciato nessuno fu pronto alla reazione tedesca. L’esercito italiano dovette scegliere se allearsi alla repubblica di Salò o rimanere a fianco della propria patria. Del milione di soldati disarmati dalle truppe del Terzo Reich, 650mila si rifiutarono di integrarsi all’esercito della Rsi e pertanto furono deportati nei campi di concentramento come Imi, Internati militari italiani. A tal proposito abbiamo intervistato David Orlandelli, regista autore del docufilm Radio Caterina, che tratta della storia di cinque ufficiali italiani, i quali, nonostante le avversità e il rischio di perdere la vita, crearono nel lager X/B di Sandbostel in Germania una radio passiva, che permise loro di avere informazioni dall’esterno sull’andamento della guerra.
Era necessario non comunicare l’intenzione di firmare l’armistizio all’esercito italiano, al fine di nasconderlo ai nazisti, o semplicemente mancava un piano?
«L’armistizio fu firmato il 3 settembre, l’8 è la data in cui fu comunicato via radio. I tedeschi non lo sapevano ma lo temevano. E quindi avevano preparato il piano Achse, che era da attuare nel caso gli italiani uscissero dal conflitto. Fino all’ultimo Badoglio e gli altri cercarono di rassicurare i tedeschi, dicendo che sarebbero rimasti fino in fondo e non li avrebbero mai abbandonati, perché avevano paura delle conseguenze e perché in realtà speravano di trovare una soluzione su tutti i fronti, ottenendo qualcosa sia dagli alleati che dai nazisti. In realtà l’armistizio prevedeva la resa incondizionata, quindi non c’era nessuna richiesta da avanzare: l’Italia doveva arrendersi e basta. Badoglio e il re scapparono, senza dare alcun avviso, né ai generali né ai funzionari, prima verso Pescara e poi verso il Sud, che era già stato liberato. L’annuncio agli italiani arrivò di sorpresa e non c’era un piano da poter mettere in atto, non avevano idea di cosa stesse succedendo e non sapevano come reagire. I nazisti ne approfittarono per attuare una ritorsione violenta nei confronti di un’intera nazione, che ora consideravano traditrice».
Badoglio si aspettava che i tedeschi sarebbero arrivati a deportare i soldati italiani?
«Sicuramente pensò a salvare la pelle, la sua e di poche altre personalità, tra cui il re. Tra l’altro ci fu anche uno scontro sull’idea che la Corona abbandonasse Roma: il re in fuga era un segno di viltà. Penso che loro non abbiano saputo minimamente prevedere le conseguenze, tentando invano di tenere il piede in due staffe. Scapparono e abbandonarono tutti al loro destino».
Quale fu la motivazione che spinse gli ufficiali internati a rischiare la vita per creare Radio Caterina?
«L’idea nacque soprattutto dalla necessità di sapere cosa succedeva al di fuori del campo. Gli Imi erano isolati da tutti ed erano trattati peggio degli altri prigionieri di guerra, perché erano considerati traditori. La stessa definizione di Imi fu usata dai tedeschi per sottrarli alla Convenzione di Ginevra e quindi poterli trattare peggio, non farli visitare dalla Croce Rossa internazionale, perché non figuravano come prigionieri di guerra. La necessità di sapere cosa succedeva nel mondo esterno e l’andamento della guerra fecero sì che per loro fosse fondamentale trovare un modo per ricevere notizie: Radio Caterina era, infatti, solo una radio ricevente. Erano ufficiali e mettendo insieme le varie competenze di fisica, di chimica, di elettronica, di ingegneria riuscirono, attorno a una valvola che avevano e che era stata trafugata, a costruire la radio, ad avere notizie dal fronte e a sapere che l’avanzata alleata stava giungendo in Germania. Dello sbarco in Normandia vennero a conoscenza ancor prima dei tedeschi. Gli alleati stavano arrivando anche per liberarli e quell’evento infuse in loro una grande speranza».
Ha fatto questo docufilm per ricordare il rifiuto coraggioso degli Imi o la storia di Radio Caterina?
«Le due storie sono connesse perché Radio Caterina è stata fatta dagli internati militari. Erano ragazzi di 18, 20, 22 anni, che si sono trovati a fare una scelta e hanno accettato le conseguenze, pur di mantenere fede a un loro impegno, alla loro dignità morale. La storia della radio, sicuramente, è anche una storia molto particolare, che pochi conoscono, però non si può raccontare Radio Caterina senza parlare degli Imi».
Nel documentario i testimoni affermano di essersi rifiutati di passare dalla parte dei nazisti perché loro combattevano per l’Italia, non per Mussolini o per Hitler. Per lei, oggi, una condotta simile sarebbe replicabile?
«Io credo che, al di là del senso della patria, per loro ci fosse il senso dell’onore, del rispetto della parola data e dell’impegno preso. Si erano arruolati nelle fila dell’esercito italiano e non avrebbero mai potuto combattere contro altri italiani».
Che scelta si farebbe oggi è difficile da dire, perché c’è un’idea diversa dell’impegno civico, della dignità ed è cambiata anche la maniera in cui ci informiamo.
«Durante la guerra, abitudini e convinzioni che si hanno in tempo di pace vengono messe in discussione, quindi quella degli Imi è stata prima di tutto una scelta personale. Divenne poi un simbolo, proprio perché in 650mila dissero di no. Molto difficile riuscire a immaginarlo oggi, dato che siamo così abituati alla pace in casa, a una vita abbastanza serena. È sempre difficile fuori da quel contesto riuscire a dare una risposta, basti pensare che noi abbiamo saputo, in tempo reale, quello che succedeva in Ucraina o nella Striscia di Gaza, mentre nel ‘43 le notizie arrivavano, frammentate, via radio. C’era l’esigenza di saper contare su se stessi, cosa che oggi non siamo più abituati a fare».
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