IL CASTORO | Quando la morte è una dolorosa libertà
Artea Calderoni
L’eutanasia legale e il suicidio assistito consistono nell’assunzione intenzionale, nell’interesse di un paziente malato che ne fa esplicita richiesta, di una dose del farmaco Pentobarbital, per porre fine alla propria vita. Il suicidio assistito si distingue dall’eutanasia per l’autosomministrazione della dose letale, da parte dell’individuo stesso, in presenza di testimoni.
Mentre in alcuni paesi come Spagna, Belgio, Svizzera e Colombia queste pratiche sono legali da anni, in Italia paiono ancora lontane da una possibile legalizzazione, nonostante l’81% degli elettori sia favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia, secondo il sondaggio annuale dell’Ipsos sul Nordest Italia, citato in un recente comunicato dall’associazione Luca Coscioni. Sempre secondo tale rilevazione, negli ultimi 20 anni la percentuale dei favorevoli sarebbe aumentata del 25%.
Matteo Mainardi fa parte della Luca Coscioni ed è coordinatore della campagna eutanasia legale. Ha risposto ad alcune nostre domande su questo tema controverso.
A che punto è l’Italia con la proposta di legge in parlamento sull’eutanasia legale?
«Il parlamento continua a mostrarsi indifferente e, nonostante i richiami della Corte Costituzionale, sta scegliendo di non decidere. Noi chiediamo che sia affrontata pubblicamente la discussione, prendendosi la responsabilità di dire sì o no alla regolamentazione dell’aiuto medico alla morte volontaria. Ma dopo anni la questione rimane aperta».
Ci sono resistenze di carattere culturale e religioso alla discussione istituzionale sulla proposta di legge?
«Per anni il tema del diritto al fine vita è stato considerato non negoziabile. Non se ne poteva parlare. È servito il coraggio di chi ha messo sotto i riflettori la propria sofferenza per aprire il dibattito: pensiamo a Piergiorgio Welby, Dj Fabo, Davide Trentini, Federico Carboni e tanti altri senza i quali sarebbe rimasto un tabù. Chi è contrario alla libertà di scelta nel fine vita, soprattutto tra i parlamentari, usa la religione come scudo. Dai sondaggi sappiamo, in realtà, che non vi sono differenze sostanziali tra i credenti e i non credenti favorevoli».
La legge sul fine vita è un tema che divide destra e sinistra o riguarda le coscienze individuali?
«Nonostante la narrazione pubblica su questi argomenti, le leggi sul fine vita non dividono destra e sinistra. I sondaggi vedono la maggioranza di elettori favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia in tutti i partiti italiani. Diversa è la questione quando andiamo a vedere gli eletti dei vari partiti. Qui destra e sinistra, con poche e meritorie eccezioni, sono sempre andati a braccetto, per impedire ai cittadini l’esercizio della libertà di scelta nel proprio fine vita».
Ritiene che il processo per il quale Marco Cappato, tesoriere dell’associazione, ha accompagnato Elena Altamira in Svizzera possa costruire un precedente giurisprudenziale per sbloccare l’impasse legislativa?
«Oggi il suicidio medicalmente assistito è legale in Italia. La Corte costituzionale, esprimendosi sul caso di Cappato-Dj Fabo, ha dichiarato non punibile l’aiuto dato a una persona maggiorenne, capace di intendere e volere, afflitta da dolori fisici o psicologici, ritenuti da lei insopportabili e tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Questo ultimo requisito, crea una importante discriminazione: chi è tenuto in vita da macchinari può essere aiutato a morire, chi non lo è - anche se in presenza di intollerabili sofferenze e con una malattia terminale - non può essere aiutato. Questo è proprio il caso di Elena Altamira, che si è dovuta affidare all’associazione per raggiungere la Svizzera e ottenere il suicidio medicalmente assistito. Il processo che si aprirà a Milano contro Marco Cappato sarà l’opportunità per eliminare tale discriminazione».
Fin dove si vuole arrivare? Fino alla scelta di poter ricorrere a queste terapie anche per casi di depressione e altre malattie mentali, come per la ragazza belga Shanti De Corte? Non la considera una sconfitta dello Stato in ambito sociale?
«Il nostro obiettivo è quello di eliminare le discriminazioni nell’accesso al suicidio medicalmente assistito tra persone affette da patologie fisiche. Un ragionamento andrebbe però fatto anche verso chi è colpito da malattie psichiche, soprattutto quelle non più trattabili. La non regolamentazione delle scelte di fine vita porta lo Stato a fallire ogni giorno. L’Istat dice che in Italia il 46% dei suicidi hanno come movente la malattia, fisica o psichica. Regolamentare l’eutanasia o il suicidio assistito permetterebbe alle persone, prima di ricorrere a gesti tragici, di essere inserite in un percorso medico e psicologico con l’obiettivo di trovare alternative e, solo in caso di rifiuto, procedere autorizzando il trattamento di fine vita. Ovviamente serve un’attenzione massima per questo tipo di patologie».
Cosa significa per i membri dell’associazione Luca Coscioni questa battaglia di civiltà che portate avanti?
«Chi si rivolge a noi vive una condizione di prigionia all’interno del proprio corpo e ha davanti a sé un percorso di dolore, che lo condurrà alla morte. La persona che chiede di morire il più delle volte ha provato tutte le alternative possibili e ormai nemmeno gli oppiacei la sollevano dalla sofferenza. Coloro che si rivolgono a noi sono più spaventati dal continuare a vivere, che dalla morte e quando decidono di procedere sono determinati e speranzosi. Perciò non ci sono lacrime, ma solo gioia per la libertà di vedere rispettata la loro volontà».