IL CASTORO | On the road: «Controcanto alla cultura dominante»

Romagna | 11 Giugno 2023 Blog Settesere
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Filippo Castagni
È stato il padre della Beat Generation Jack Kerouac. Nel 2022 si è celebrato il centenario della sua nascita, avvenuta a Lowell, Massachussets. Non si è dimenticata di lui la redazione del Castoro, che ha voluto ricordarne l’influente figura e il suo più celebre libro, On the road, assieme a Elena Lamberti, professoressa di Letterature anglo-americane all’università di Bologna.
Che romanzo è On The Road?
«On The Road è un romanzo che ha avuto un grosso impatto sulla storia letteraria degli Stati Uniti. È stato scritto all’inizio degli anni ‘50, pubblicato nel ‘57, ma concepito negli anni ‘40, durante un viaggio che Jack Kerouac fa con una serie di amici che ritroviamo anche nel libro. È un romanzo che racconta un disagio, soprattutto giovanile, che ha molte facce: una è la faccia esistenziale del singolo, della persona che non si ritrova, che deve cercare un senso. L’altro è il disagio di una generazione giovanile, che non si riconosce in un certo modello di società, quella puritana, rappresentata dai genitori. È un libro di figure mitiche, mitizzate, non necessariamente eroi positivi, che hanno avuto un impatto enorme quando il mondo è cambiato attraverso tutte le rivendicazioni degli anni ‘60, sia in termini di giustizia sociale che di libertà di scelta. On The Road ha introdotto novità anche a livello di scrittura: il pensiero dell’autore fluisce e si traduce in una pagina dal ritmo musicale, influenzato dalle controculture del periodo, come il jazz be-bop, lo stile Dixieland e il blues africano. Questi influssi rendono il romanzo più facile da ascoltare che non da leggere».
Che cosa ha spinto Kerouac a scrivere il suo più celebre libro?
«Non una volontà letteraria, ma un modo per esprimersi. On the road non è un romanzo lineare, si raccontano momenti di crisi, di euforia, di amore e odio. È come se fosse una strategia per elaborare delle esperienze, per dare forma a delle sensazioni che non si capiscono subito. Il viaggio non porta veramente da qualche parte, si raggiungono tutta una serie di città, però poi non è che si conquisti la felicità, quindi non è tanto un romanzo di formazione, ma un romanzo in formazione. Ciò che ha spinto l’autore a scriverlo è proprio l’idea di parlare a se stesso di se stesso e attraverso se stesso. Così facendo, ha finito per parlare di un gruppo, una realtà, quella dei giovani americani che devono decidere chi sono. Negli anni ’50 gli Usa stanno cambiando moltissimo, sono anni in cui una certa idea di ‘buona America’ inizia a essere messa in dubbio. Gli statunitensi iniziano ad abusare di farmaci, tranquillanti ed altro. L’Lsd e altre droghe psichedeliche cominciano a diventare popolari in alcuni circoli a scopo ricreativo, per poi esplodere con la cultura hippie. Parlare dei “tranquilli anni 50” equivale a usare un’etichetta molto ironica, che denuncia la fatica di una presa di coscienza. Si è preferito tante volte non vedere e coloro che hanno percepito le difficoltà, le crepe di una democrazia non sempre giusta, sono entrati in crisi».
Quale critica rivolge il libro alla società del tempo?
«Quando Kerouac scrive, non c’è una volontà politica di denuncia, anche se poi alla fine emerge. È il disagio raccontato che stigmatizza le storture della società che lo alimenta. A confronto, nella lettura pubblica del poema Howl che fa Allen Ginsberg a San Francisco nel 1955, c’è un messaggio intenzionalmente politico, una critica aperta, una denuncia contro tutte le ipocrisie della società, i limiti e le censure».
Ha funzionato questo messaggio?
«Per me no, però direi di sì. Mi spiego: alla fine la Beat Generation resta un simbolo, i suoi autori sono delle icone di quella volontà di dire e fare le cose in un modo diverso. La controcultura americana ha sicuramente inciso in termini di creazione di consapevolezza, maggiore giustizia sociale, enfasi sui diritti umani. Se rimaniamo sul discorso letterario, poi, hanno sicuramente avuto un grande successo e ancora ce l’hanno. L’ha avuto soprattutto l’idea di ribellione, molto spesso banalizzata. Tuttavia per Kerouac non ha funzionato, basti pensare che lui, che ha fatto tante fughe, ha finito gli ultimi anni a casa della madre. Dal punto di vista individuale, non credo che quel successo o quel percorso gli abbia fatto avere una vita più felice, anzi».
Almeno la società è cambiata?
«Non so se solo per merito o demerito loro, ma sicuramente Howl e On The Road hanno indicato una svolta. Per esempio Howl diventa oggetto di un processo per censura e al suo termine il giudice ha difeso il poema, dicendo che un’opera può essere considerata oscena solo se c’è l’intenzione di corrompere il lettore, attraverso l’eccitazione di sensi o incitandolo ad azioni immorali e aggiungendo: “Non c’è oscenità in un’opera se questa ha un’importanza sociale forte”. Una sentenza di questo tono libera la possibilità di esprimersi in un altro modo e alimenta tutta una serie di rivoli, che poi porteranno alle controculture e alle nuove lotte degli anni ‘60, legate anche alla protesta contro le guerre, Vietnam in primis. In quegli anni escono una serie di film sui giovani ribelli, due per tutti Il selvaggio con Marlon Brando e Rebel without a cause (da noi Gioventù bruciata) con James Dean».
Il beat è ancora vivo?
«Se per beat si intende tutto ciò che crea un controcanto a un discorso culturale dominante, tutto ciò che porta a creare una pluralità di narrazioni e conduce alla naturalità dei discorsi, allora risponderei di sì e spero che non muoia mai. Se invece si intende quel beat in particolare, in questo momento sopravvive come un archetipo letterario, come un modello, che rischia però di essere eccessivamente mitizzato e dunque di trasformarsi in un cliché».
Perché i ragazzi della generazione attuale vogliono ancora leggere quel romanzo?
«La sensazione che ho io è che On The Road sia riconosciuto come un universale, che le generazioni, attraverso i decenni, o anche le tradizioni culturali, riconoscono come una sorta di oggetto-feticcio, col quale ci si confronta proprio nel momento di una crescita. Dal punto di vista dell’impatto anch’io sono incuriosita dal fatto che sia diventato un po’ un classico universale della generazione più giovane, considerando poi che il nostro mondo è ormai molto diverso. Evidentemente i giovani continuano a leggere On The Road perché è come un viaggio verso un’idea di emancipazione e di presa di coscienza, con tutta la fatica che il crescere comporta».
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