IL CASTORO | Massimo Cirri: «Fuoco incrociato sulla Sanità»

Romagna | 22 Marzo 2023 Blog Settesere
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Irene Roncasaglia
Il Sistema sanitario nazionale italiano ha giocato sicuramente un ruolo di grande importanza nell’affrontare la pandemia da Covid-19. Ce ne siamo accorti tutti dal primo lockdown, ma è sempre stato a fianco degli italiani, da quell’ormai lontano 1978, quando venne istituito, sotto la guida del ministro della Sanità Tina Anselmi. Il sistema si basò da subito sul principio della tutela della salute, come bene imprescindibile e fruibile da parte di tutta la comunità. A volte ci dimentichiamo di quanto sia importante il Ssn e per questo Il Castoro ha pensato di parlare con qualcuno che ha vissuto direttamente un’esperienza a contatto con questa «macchina di democrazia». Lo definisce così Massimo Cirri, 63 anni, ex-psicologo, alle dipendenze della Rai come storico conduttore di Caterpillar. L’anno scorso ha pubblicato, assieme alla giornalista Chiara D’Ambros, per i tipi di Manni editore, Quello che serve, un libro in cui racconta la malattia che lo ha colpito qualche anno fa e come ne è uscito grazie al Ssn.
Quali sono i punti di forza e debolezza del sistema?
«Il sistema sanitario è una macchina enorme, ci lavorano più di 700mila persone. Il punto di forza è che la salute è considerata un diritto e non una merce, per cui non si deve pagare per le cure ricevute. Ognuno viene curato indipendentemente dalla disponibilità economica. Ormai lo diamo per scontato, ma in altri Paesi del mondo ci sono casi di impoverimento per malattia, perché il cittadino è costretto a usare i suoi risparmi per curarsi. I punti deboli sono le inefficienze, l’insostenibilità economica dei costi, la continua critica (se ne parla sempre male) e la concorrenza dell’industria della sanità privata, che punta a smontare il settore pubblico, facendo leva sui suoi difetti».
Perché si parla spesso di inefficienze e malasanità e non dei lati positivi?
«Prevalgono gli aspetti negativi, innanzitutto perché il Ssn non ha mai avuto un buon ufficio stampa, che racconti veramente le grandi imprese positive che affronta. Inoltre per un meccanismo naturale della comunicazione non riusciamo a considerare notizie gli aspetti positivi, il male fa inevitabilmente più notizia del bene. Inoltre il Ssn è prigioniero di una narrazione continua, secondo me non vera, per cui il privato è considerato a priori migliore del pubblico, perché quest’ultimo è associato a inefficienza e a impiegati fannulloni».
Medici e infermieri vengono degnamente ripagati per la loro professionalità?
«Durante la pandemia il capitale umano del Ssn ha salvato l’Italia da un possibile crollo enorme. In particolare medici e infermieri sono stati essenziali, soprattutto questi ultimi che nel nostro paese sono sottopagati. In realtà tutto il Ssn è sottofinanziato da una trentina d’anni, riceve meno soldi di quelli di cui avrebbe bisogno. Anche i medici ora sono un po’ in difficoltà, prima erano considerati eredi sacrali dei grandi guaritori, ricoprivano un importante ruolo sociale, che ora però si sta deteriorando. L’Italia ha una grande emotività espressa: ci siamo accorti della loro importanza durante l’esplosione della pandemia e siamo usciti sui balconi ad applaudirli, ma dopo pochi mesi ce ne siamo scordati».
Considera il Ssn in grado di rispondere alle necessità della società in cui viviamo?
«La Sanità e la scuola sono le due macchine di democrazia, che mantengono le persone in rapporti di equità. Da un lato la scuola garantisce il diritto all’istruzione a tutti e allo stesso modo il Ssn ci tiene lontani dalla morte. In Italia la popolazione è anziana e ha un’aspettativa di vita molto più alta che in altri paesi: è merito della sanità e non della dieta mediterranea!»
Come vanno spesi i fondi del Pnrr destinati al servizio sanitario nazionale?
«Andrebbero rafforzati i servizi territoriali. È necessario che siano più performanti, per affrontare le malattie croniche, per garantire un facile accesso a cure e servizi vicino a casa. Occorre inoltre investire nel capitale umano, negli stipendi, per garantire soddisfazione e gratificazione a chi ci lavora».
La qualità dei servizi ospedalieri differisce da regione a regione?
«Sicuramente sì, c’è chi parla di 21 servizi sanitari regionali al posto di uno unico nazionale. C’è troppa differenza. La qualità della vita comporta una diversa aspettativa di vita: un cittadino calabrese ce l’ha inferiore di alcuni anni rispetto ad uno dell’Alto Adige. L’epidemiologo Giuseppe Costa ha condotto uno studio sul rapporto tra disponibilità economica e salute: lo descrive come un autobus che parte dalla collina torinese e arriva a Mirafiori, la zona più povera della città e ad ogni fermata l’aspettativa di vita diminuisce di qualche mese».
La politica sta dimostrando di sapere affrontare l’emergenza che vivono ora i Pronto Soccorso?
«I medici non vogliono più lavorare nei Pronto Soccorso perché sono in pochi a gestire un lavoro enorme, usurante e faticoso. Succede che si licenziano, poi vengono richiamati come ‘gettonisti’; in questo modo lavorano meno ore guadagnando di più. Nei Pronto Soccorso i medici devono prendere decisioni veloci e importanti su questioni complicate, ma si ritrovano spesso come turnisti a lavorare per la prima volta in gruppo insieme e questo è un grande limite organizzativo. Infatti nemmeno una squadra di calcio gioca una partita importante, se prima non si è allenata con tutti i giocatori».
I tempi di attesa per una visita differiscono molto dal pubblico al privato. Come si possono evitare le disuguaglianze dovute a una diversa disponibilità economica?
«C’è un equilibrio precario tra pubblico e privato, devono coesistere ma è una battaglia sporca, perché il privato adotta la logica del guadagno. Personalmente vorrei che il sistema pubblico fosse tutelato maggiormente. La sanità è un sistema complesso e in essa dobbiamo investire di più, così come nella scuola. Da anziano pacifista direi che si potrebbe togliere qualche risorsa alla difesa e investire piuttosto nel Ssn. La Costa Rica ha un’aspettativa di vita alta tanto quanto quella degli Usa. Il professore di epidemiologia Michael Marmot spiega che ciò è stato possibile perché nello stato dell’America centrale hanno abolito l’esercito, privilegiando la qualità della vita delle persone. Tocca a noi cittadini scegliere, votando e parlando. Ci stiamo facendo fregare, occupandoci troppo poco della sanità e lasciando completa libertà alla politica».
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