IL CASTORO | Lea Melandri: «Amare è accettarsi e sapersi amare»
Assy Ndiaye
Il femminismo, movimento sociale e politico che mira a ottenere l’uguaglianza di genere e il riconoscimento dei diritti delle donne, ha radici profonde che affondano nel passato, ma continua a permeare il tessuto della società contemporanea con una rilevanza senza tempo. Dal suo emergere come movimento organizzato nel XIX secolo, fino alle rivoluzioni culturali degli anni 1960 e 1970 del XX secolo, ha attraversato fasi d’intensa lotta e di significativi cambiamenti, influenzando le mentalità e le politiche in tutto il mondo. La redazione del Castoro ha intervistato Maddalena ‘Lea’ Melandri, scrittrice e attivista del movimento delle donne italiano.
Lei nasce nel ʼ41 a Fusignano. Quando ha incontrato il femminismo?
«Il mio rapporto con il femminismo è cominciato quando sono arrivata a Milano, era il ’66, avevo 25 anni e cominciavo a insegnare. Prima del femminismo, ho incontrato un movimento di studenti-insegnanti che seguivano una ‘pratica non autoritaria’, cioè non ricorrevano più a voti e bocciature, per cercare di cambiare la scuola. Nel ’70-71 ho incontrato i gruppi femminili, la loro pratica si chiamava ‘autocoscienza’, che significa prendere consapevolezza di sé. Ci si raccontava e si rifletteva sulle nostre vite e noi ci eravamo accorte che sino ad allora le donne avevano avuto come unico destino quello di mogli e madri. Avevano cioè vissuto solo in funzione dell’uomo, la loro sensualità era finalizzata al piacere maschile e la maternità era intesa come obbligo procreativo».
Come ha visto evolversi l’idea di femminismo?
«Le donne, prima di noi, avevano lottato soprattutto nel nome dell’uguaglianza e si erano servite della ‘maternità civile’, che portavano nella società degli uomini. Noi, invece, criticavamo proprio l’identificazione delle donne con la maternità e la divisione sessuale del lavoro, per le quali sono le donne che devono occuparsi dei bambini, della famiglia, dei malati, degli anziani. Contestavamo ciò che era considerato naturale per le donne, ciò che le ha sempre tenute fuori dalla storia e dal governo del mondo. Abbiamo iniziato a considerare quella che si sosteneva fosse la normalità come la visione maschile del mondo, che ha imperato per millenni di storia».
Coincide con la visione moderna?
«Credo che alcune delle conquiste degli anni ’70 siano importanti ancora oggi, come le battaglie per il divorzio e l’aborto, che hanno portato a una nuova riforma del diritto di famiglia, ma vengono messe ancora continuamente in discussione. Oggi, infatti, negli ospedali, si fatica a trovare dottori disposti ad aiutare le donne ad abortire. Per me, questa grande distanza tra gli anni ’70 e la modernità non c’è, forse è presente un po’ più di consapevolezza e libertà, però c’è ancora molto da fare. Ci sono due attrattive che gli uomini hanno visto nelle donne: la seduzione e la maternità, e le donne cercano di usare queste due doti per conquistare qualcosa per loro, ma non è questa la strada per la liberazione».
Com’era la sua vita prima di trasferirsi a Milano?
«La mia vita è stata molto dolorosa. Sono figlia unica di contadini romagnoli molto poveri, eravamo otto in famiglia, tutti in una cascina molto disagiata. Ho assistito, dormendo in camera coi miei genitori, ad anni di violenza sulle donne, non capivo bene dove finiva l’amore e dove cominciava l’abuso. La scrittura mi aiutava tanto, perché era un modo per entrare in rapporto con adulti diversi da quelli della mia famiglia. I miei nonni erano adorabili, mi volevano molto bene ed erano contenti che fossi così brava a scuola, ma io mi sentivo sola. I miei genitori, poi, mi hanno costretta moralmente a sposare una persona che non amavo e non era giusta per me, ma non volevo dare loro un dispiacere, quindi mi sono sposata, nonostante fossi contro il matrimonio e non volessi avere figli. Dopo quattro mesi ho preso un treno e sono fuggita a Milano, dove ho cominciato a insegnare».
Come si trovava a scuola?
«Ho avuto il privilegio di studiare al liceo di Lugo, ero molto brava, ho imparato subito l’italiano. Nel primo tema di quarta ginnasio bisognava fare un’esercitazione letteraria e il titolo era il 9 Novembre, io invece ho parlato della mia famiglia, della violenza a cui avevo assistito. L’insegnante mi ha detto che era un bellissimo testo, ma era fuori tema e ho preso un voto negativo. Dopo quel fatto ho abbandonato la scuola per dei mesi. Per fortuna poi la professoressa si è ammalata, al posto suo è arrivata una supplente giovane e allora ho deciso di proseguire lo studio. La scuola mi piaceva moltissimo e studiavo con piacere, però sentivo che c’era una parte di me che non entrava dentro quelle aule, c’erano argomenti di cui non potevo parlare e quindi mi è rimasto all’interno un nodo forte e doloroso».
Qual è stata la genesi del suo libro Come nasce il sogno d’amore?
«Era la fine degli anni ’70, nei gruppi femministi si parlava molto della sessualità e della maternità, ma non si parlava mai dell’amore, perché era un argomento difficile. Il bisogno d’amore però è nell’esperienza di tutte le donne. Alcune alla fine dell’infanzia e dell’adolescenza lo avvertono profondamente e lo cercano, con disperazione, nelle persone sbagliate. Allora io uscivo da dieci anni molto intensi e mi trovavo in una condizione di disagio psicologico, al punto che ho desiderato fare un percorso di psicoanalisi, proprio con il desiderio di capire il bisogno d’amore. Così è nato questo mio libro, sicuramente il più personale e il più importante. È diverso da tutti gli altri ed è centrale perché, analizzando me stessa, ho imparato ad accettarmi e a capire che l’amore, se c’è, deve essere una cosa in più, non il motivo della propria felicità».