IL CASTORO | La testimonianza di Domenico Vignoli, a 80 anni dalla strage di Purocielo

Romagna | 02 Aprile 2024 Blog Settesere
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Edoardo Argnani
Ricordare la resistenza oggi significa anche tenere conto di una realtà: i nostri nonni non furono tutti ferventi fascisti o impegnati oppositori politici e partigiani. Quello che è certo però, specialmente in Romagna, è che non fu solo un evento storico di enorme importanza, ma sconvolse nel profondo la quotidianità di intere comunità.
Nato nel 1927, Domenico Vignoli, di professione contadino, ha vissuto l’adolescenza durante il secondo conflitto mondiale ed è tra i pochi oggi ancora in grado di narrare con lucidità gli eventi che hanno segnato la sua gioventù. Testimone diretto della Battaglia di Purocielo (9-12 ottobre 1944), ci offre un ritratto esaustivo di una quotidianità rurale e borghigiana quasi manzoniana, stravolta dagli eventi della Storia, dall’ascesa del fascismo all’occupazione tedesca, fino all’arrivo dei partigiani e alle drammatiche conseguenze degli scontri sulla Linea Gotica. Ogni dettaglio del suo racconto, visto dagli occhi di un ragazzino, dipinge un quadro vivido di quegli anni tumultuosi e costituisce una memoria da acquisire, conservare, valorizzare.
Signor Vignoli, si ricorda bene quegli anni?
«Vuoi che non mi ricordi? Sono del ’27, avevo 13 anni quando la guerra è cominciata e 18 quand’è finita. In casa nostra sono stati una quarantina di giorni i tedeschi e 70-80 i partigiani».
Com’era vivere in quegli anni, sul fronte e coi nazisti in casa?
«Quando a Purocielo c’erano i tedeschi dovevamo accoglierli in casa, fare tutto per loro, preparare legna e viveri, sotto la minaccia delle armi. Pian piano si ritiravano e quando sono arrivati gli alleati non avevamo più niente. Da noi venivano a dormire sempre i tecnici del telefono. Una notte sono andati via e poco dopo è venuto un temporale. Sono tornati a casa durante la notte, ci hanno svegliati e sono andati nei nostri letti. Poi prendevano gli animali, prima da noi, poi in altre case, dove c’era ancora un maiale o qualcosa da mangiare. Se non trovavano niente o scoprivano disertori ammazzavano il capofamiglia. Coi tedeschi, credimi, non si scherzava».
E dopo, quando sono arrivati i partigiani, è cambiato qualcosa?
«I partigiani erano divisi in tante compagnie. Anche loro avevano bisogno di dormire e di mangiare, ma noi non avevamo più niente. Il primo che hanno ammazzato aveva un cavallo bianco. Attila lo chiamavano, questo era il suo nome di battaglia. I partigiani però delle armi quasi non ne avevano. Avevano solo un fucile mitragliatore che funzionava pure male, lo avevano messo in una cassa nel fienile».
Poi è arrivato lo scontro: il 9 ottobre 1944 si apre la battaglia di Purocielo. Cosa ricorda?
«Il giorno prima i partigiani, che in quel momento erano ospiti da noi e nelle case vicine, stavano pattugliando a piedi il sentiero che da Purocielo conduceva a Sant’Eufemia, dov’era situato il fronte. In quel momento, proprio nel provare a oltrepassarlo, si sono trovati coinvolti in uno scontro a fuoco. Sono riusciti a resistere, ma qualche ora dopo hanno dovuto ripiegare verso Purocielo, e i tedeschi, nella notte, sono andati al loro inseguimento. La mattina dopo, alle 6, sono arrivati tutti giù da noi. Spari, grida, e a mezzogiorno nel campo c’erano 15 corpi di partigiani. Il prete ha detto di trovar loro un posto e li ho sepolti con le mie mani. Avevo 18 anni. Quando sono arrivati i tedeschi è stato terribile, i partigiani scappavano, ma loro gli tiravano addosso coi fucili come si fa con gli uccelli. Ho pensato che fosse la fine. La disgrazia di quei poveretti è stata però la nostra fortuna: quando i fascisti erano sconfitti bruciavano tutte le case, ma con questa rappresaglia non si sono vendicati su di noi».
Eravate stati avvertiti del loro arrivo?
«Quando hanno ucciso il primo partigiano era ancora buio, da noi è venuto un vecchietto che andava nel castagneto: “Ci sono i tedeschi, i fascisti”, diceva, e ci avvertiva perché mio fratello e i miei vicini erano di leva; se i tedeschi li avessero presi li avrebbero ammazzati in quanto disertori. C’era stato da poco l’armistizio, l’esercito si era disfatto e loro erano tornati a casa, ma stavano nascosti. Tra vicini eravamo d’accordo così: dalla prima casa dove arrivava un battaglione di fascisti, partiva una donna e andava a portare il messaggio a tutti gli altri. Quelli che erano di leva si nascondevano in un rifugio, sotto la casetta delle api. Quando sono arrivati i fascisti, il giorno della battaglia, tutti gli uomini si sono nascosti, compreso mio zio, oppositore del regime».
Nella vostra famiglia c’è quindi stato anche qualche partigiano?
«Veri partigiani no, durante il fascismo avevamo tutti paura, molti non erano schierati, poi c’era mio zio, Mario Vignoli, lui sì, era molto di sinistra, un oppositore del regime. Faceva delle riunioni a Faenza. Io il fascismo me lo ricordo bene, ero ragazzo. Hanno ammazzato tanta gente e bastava poco per fare una brutta fine: tu andavi in piazza e loro venivano in tanti col manganello. Durante il ventennio mio zio è stato preso dai fascisti, l’hanno picchiato a sangue, poi ha fatto 7 anni di carcere a Turi di Bari. Ha sempre raccontato di aver conosciuto Gramsci durante la reclusione. I fascisti gli davano giusto l’aria da respirare e quando è tornato a casa pesava 35 chili. Era del 1892. Dopo la guerra era venuto a casa nostra, ma i fascisti lo cercavano. Nel frattempo noi soffrivamo la fame e le notizie arrivavano sparse. Almeno la guerra stava finendo».
Era davvero molto giovane, ha mai pensato di non riuscire a salvarsi?
«Ormai avevamo capito che i tedeschi erano alla fine. Bombardavano continuamente e noi ragazzi guardavamo verso Marradi e Faenza: c’erano 7-8 aerei e quando sganciavano le bombe sembrava che si fermassero. Però, stai a sentire, io non capisco davvero perché oggi debbano fare la guerra, con le armi che hanno adesso. Ora tirare missili è come una mitraglia, è un attimo, basta spingere un pulsante. Se c’è un matto, in mezza giornata spiana tutto, non capisco perché non sono capaci di fermare una guerra. Forse perché non la vogliono fermare, ci sono sempre gli interessi sotto tutto questo, io lo so, non siamo accomodati tanto bene».


 
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