IL CASTORO | L'analista Fabrizio Foschini: «In Afghanistan il popolo è stanco della guerra»

Romagna | 19 Marzo 2022 Blog Settesere
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Irene Roncasaglia
Spesso si sente parlare dell’Afghanistan, della sua povertà, della guerra, ma sembra solo un racconto lontano perché non si conosce veramente il contesto in cui vive la popolazione. Fabrizio Foschini, 41 anni, storico e collaboratore dell’Afghanistan analysts network ci spiega cosa vuol dire vivere in un paese vittima di aggressioni coloniali fin dall’800, ma mai conquistato e continuamente in balia di governi precari.
Che studi ha fatto? Come ha avuto modo di avvicinarsi alla realtà afghana?
«Sono stato uno studente del liceo Torricelli di Faenza. In particolare verso gli ultimi anni mi sono interessato alle situazioni di conflitto nel mondo, accorgendomi subito che la realtà afghana era semisconosciuta e poco seguita a livello mediatico internazionale. Ho frequentato poi il corso di storia orientale all’università di Bologna, dove ho studiato il dari, lingua franca internazionale dell’Afghanistan, che mi ha permesso di instaurare un rapporto diretto con le persone durante i miei viaggi».
In che zone dell’Afghanistan è stato e per quanto tempo?
«Nel 2003 vi ho accompagnato un mio professore universitario, esperto di diritto islamico. Nel 2009 ho intervistato la popolazione di una regione del paese, per un dottorato sulla raccolta di fonti orali. L’anno seguente, per dedicarmi alla situazione politica, mi sono unito all’Afghanistan analysts network, trasferendomi a Kabul fino al 2014. Lì ho potuto lavorare senza restrizioni, come analista politico e ricercatore e così ho avuto la possibilità di viaggiare senza barriere tra me e il popolo. Dal 2014 mi sono ristabilito in Italia a Trieste, ora collaboro part time con Aan e sono interprete in un progetto di accoglienza di rifugiati afghani».
Com’è cambiato il paese dagli anni ’70?
«L’Afghanistan è sempre stato molto conteso. Nel 1979 il partito comunista ha preso il potere con un colpo di stato e negli anni ’80, con il coinvolgimento dell’Unione Sovietica, il paese è diventato un campo di battaglia, in cui i bombardamenti hanno distrutto tutte le risorse delle campagne e ancora oggi ci sono zone non ricostruite. Nel ’92, con la caduta del governo comunista, si è innescata una guerra civile tra gruppi divisi su basi etniche e religiose, finché dopo quattro anni sono apparsi i talebani, giovani miliziani volontari delle campagne del sud, che hanno cercato di riportare l’ordine in modo drastico, con mezzi repressivi e autoritari. Avvenivano fustigazioni pubbliche e imprigionamenti di donne quotidianamente, anche solo se non si vestivano in modo adeguato o non erano accompagnate. La guerra civile è continuata tra i talebani e i loro oppositori. L’intervento internazionale nel 2001 è stato una svolta importante per il paese».
Dal 2003 com’è cambiata la vita?
«Allora avevo visto un Afghanistan in rinascita dopo decenni di guerre, distruzioni, mancanza di acqua corrente e strade asfaltate. Poi, gradualmente, sono arrivati i soldi e una maggiore apertura internazionale. Purtroppo l’entusiasmo iniziale si è spento col fallimento delle istituzioni, rivelatesi deboli e dipendenti dall’esterno. La corruzione e le irregolarità elettorali hanno fatto presto perdere credibilità al governo. Inoltre le frequenti operazioni militari compiute dalla Nato, anche a danno dei civili, come retate notturne o bombardamenti con droni, hanno creato malcontento popolare. La presenza di soldati stranieri in Afghanistan ha fatto sì che i talebani ritrovassero il consenso, per riaffermare il proprio dominio in molte zone del paese».
… e dall’agosto 2021?
«Il cambiamento traumatico, che ha avuto inizio l’estate scorsa, è ancora in atto. Molti afghani non riescono a credere alla situazione che stanno vivendo. Se dal 2001 in poi le promesse di democrazia e pace non erano state mantenute, la qualità della vita era però notevolmente migliorata, non solo nelle grandi città, ma anche in alcune zone rurali. Ora il popolo sta tornando alle condizioni di venti anni fa e si stanno sgretolando tutti i progressi raggiunti. L’unica soluzione sembra essere quella di lasciare il paese e rifugiarsi altrove».
Qual è l’attuale condizione economica dell’Afghanistan?
«L’economia è stata smantellata e il tasso di disoccupazione è alle stelle. Il nuovo governo non è in grado di pagare insegnanti, infermieri o medici, per cui qualunque settore si trova in crisi, tranne quello della produzione di narcotici. L’economia illegale, incentrata sulla produzione e sul traffico di oppiacei, rischia di restare l’unica fonte di reddito. In questo primo inverno sotto i talebani, la popolazione sta finendo le risorse per sopravvivere e i prezzi delle merci sono triplicati. Inoltre l’Afghanistan non è autosufficiente: per i combustibili e l’elettricità si deve appoggiare ad altri paesi confinanti. Se i talebani non mostreranno flessibilità e non riusciranno a ripristinare i finanziamenti internazionali, poco alla volta i fondi finiranno».
Quali sono state le ripercussioni nel mondo dell’informazione?
«Il settore giornalistico era stato notevolmente modernizzato nei primi due decenni del 2000, attraendo l’interesse delle giovani generazioni, che si sentivano al centro di una realtà in divenire. La presenza internazionale aveva investito anche in laboratori di ricerca, radio e canali tv. Ora tali settori sono molto colpiti, poiché le libertà concesse in precedenza sono state revocate. Informare era diventata una professione, oggi insostenibile».
Quali scenari intravede per il futuro?
«In questo momento è difficile fare previsioni. La popolazione è pervasa da una generale stanchezza, non vuole più combattere e rischiare la vita ogni giorno. La presa del potere da parte dei talebani può essere dunque vista come una soluzione militare ma provvisoria. Non c’è una prospettiva di normalizzazione del governo attuale, né nel senso di un suo adattamento alle esigenze della comunità internazionale, in termini di democrazia e rispetto dei diritti umani, né di rappresentatività degli afghani che non fanno parte dell’etnia pashtun e ciò fa temere future violenze. Con un peggioramento della situazione economica e sociale senza via d’uscita, l’Afghanistan potrà andare incontro a una lenta emorragia della popolazione».
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