IL CASTORO | Intervista a Carlo Ossola, in occasione dei cent’anni dalla nascita di Calvino

Romagna | 04 Marzo 2023 Blog Settesere
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Asia Ronchi
Italo Calvino, qual è la forma della sua impronta centenaria? Oggi lo scrittore nato a Santiago di Cuba ci appare multiforme, come la serie delle Cattedrali di Rouen di Claude Monet, nelle quali cambiano i colori e le sfumature ma non il soggetto. La scrittura di Calvino infatti tende a cambiare in ogni libro, tende all’ossimoro: talvolta è distaccato, talaltra completamente autobiografico, un attento scrutatore che indaga la realtà, talvolta con il microscopio, oppure con il telescopio; definito e indefinito, apparentemente in equilibrio, ma sempre in bilico.
Dalle sue interviste emerge il desiderio di diventare invisibile, cioè di osservare gli altri mentre si scompare tra la folla. Un’invisibilità che però non ha nulla di solitario e muto, ma che ha lo scopo di acquisire una prospettiva diversa da quella consueta.
È viva in lui, che rende l’osservazione il suo mezzo principale per scrivere, la lezione di Galileo Galilei. Il sogno di essere invisibile diventa per Calvino anche un rifiuto e uno scudo verso la società che si stava sviluppando nella seconda metà del Novecento. Per questo Calvino potrebbe rappresentare il vero «uomo contemporaneo» di Giorgio Agamben, rifiutando di aderire a una realtà che non gli appartiene. Ciò lo ha portato da un parte ad aderire al partito comunista, dall’altra ad abbandonarlo, quando questo prenderà una deriva contraria ai suoi ideali. Nonostante ciò, Calvino sarà uno dei primi autori della letteratura della Resistenza con il Sentiero dei nidi di ragno. La sua diventerà poi una letteratura che pare un gioco serio, un apprendimento continuo su noi stessi e su ciò che ci circonda. Lo strumento euristico della realtà, in lui, è l’immaginazione, alla base di quasi tutti i suoi libri.
Quella di Calvino è un’eredità libera, un capitale che parla coi suoi interlocutori. In Se una notte di inverno un viaggiatore scrive: «Dai lettori m’aspetto che leggano nei miei libri qualcosa che io non sapevo, ma posso aspettarmelo solo da quelli che s’aspettano di leggere qualcosa che non sapevano loro». La sua scrittura, come per gli illuministi la cultura, è un patrimonio che vuole arrivare a tutti.
Abbiamo avuto la possibilità di confrontarci su quest’autore col professor Carlo Ossola, classe 1946, docente dal 2000 presso il Collège de France di Parigi.
Lo sguardo dell’uomo moderno somiglia a quello di Marcovaldo?
«Uno degli elementi che caratterizza il nostro secolo è quello della ‘percezione ottusa’. L’accelerazione della fornitura di dati, soprattutto visivi, è tale che ci ottunde la percezione. Per cui l’esempio di Marcovaldo, ma in genere di Calvino, di essere così attento, così sensibile, così acuto da poter percepire quello che accade in questo solo istante e mai più, è ormai raro. Lo vediamo fin dall’inizio di Palomar, in cui la percezione diventa sempre più difficile, perché c’è una specie di marea di immagini tutte indistinte, tutte complanari, che ci fanno perdere il senso della prospettiva. Stiamo diventando una società frontale».
Calvino è un autore che tende alla perfezione o al disordine?
«Per essere fedele a Calvino riprendo le sue stesse parole: “Io ero abituato nella mia adolescenza ad andare da un posto all’altro, saltando in maniera asimmetrica sulle diverse pietre dei ruscelli. La meta, il metodo erano chiari: arrivare a piedi asciutti dall’altra parte del ruscello. La tattica non era lineare, ma era quella di approfittare delle asimmetrie locali, per arrivare a creare un percorso coerente”».
L’uomo contemporaneo è simile a quello che ci racconta Calvino nella Trilogia degli antenati?
«Nelle Città invisibili c’è la rappresentazione di una città di morti, che non sanno neanche di essere morti. Calvino ha tuttavia l’idea, lo si vede ne Il visconte dimezzato, che l’uomo non riesce a essere “tutto d’un pezzo”, perché se lo fosse sarebbe inesistente. Ha sempre bisogno delle due metà. Non siamo mai interamente buoni o cattivi e dobbiamo far sì che queste due parti si uniscano, per definirci essere umani. Calvino, non solo nella Trilogia, ma anche nelle Cosmicomiche cerca di dimostrare che tutti gli sforzi di realizzare società perfette si concretizzano in esempi di società mostruose. Questo perché l’uomo è un essere limitato e imperfetto e, tutte le volte che tende alla perfezione, mette in campo un’arroganza che finisce per nuocere a sé e agli altri».
E noi siamo vuoti o indossiamo una maschera?
«Le risposte possono essere almeno due. Una è quella che dà Erasmo da Rotterdam: noi “andiamo in giro mascherati” e l’altra è di Giuseppe Ungaretti: “Io non sono che la propria persona, cioè la mia maschera”. E chissà, aggiungo, cosa c’è dietro questa maschera? Se esiste, come nel teatro delle maschere, poi c’è anche qualcuno che le dà provvisoriamente fiato. D’altra parte, alla domanda: “Se togliamo la maschera cosa rimane?” la risposta secondo me più intelligente l’ha data Charles Baudelaire, il quale dice nell’ Héautontimorouménos: “Io sono ad un tempo il coltello e la piaga”. Il coltello che cerca di togliere la maschera, ma che, se la toglie, mostra la piaga, la guancia e lo schiaffo. In questo senso la condizione umana è disagevole. Se mi chiedo veramente cosa c’è dentro o dietro devo prepararmi ad essere a un tempo esistente e inesistente, pulsante e ferito, vittima e carnefice».
La Resistenza di Calvino ha qualcosa di simile alle Resistenze di oggi?
«Noi non possiamo desumere cosa avrebbe fatto oggi Calvino. Abbiamo però un documento storico che ci racconta di un fatto analogo e ci riporta a quel 1956, in cui l’Unione Sovietica invase l’Ungheria. In quel caso Calvino fu chiarissimo e definì quell’atto un conculcare la libertà dei popoli e contestualmente lasciò il partito comunista. Credo che Calvino si comporterebbe come si è comportato allora, ribadendo che la libertà dei popoli è sacrosanta, non può essere calpestata in nessun luogo, in nessun momento e per nessuna ragione».



 
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