IL CASTORO | Ciconte: «La mafia è un problema sociale e culturale, prima che economico e politico»
Irene Roncasaglia
Dopo la notizia dell’arresto di Matteo Messina Denaro e qualche critica sull’efficienza investigativa del nostro stato, non si è più sentito parlare di mafia, tutto è tornato come prima, è calato il silenzio. La redazione de Il Castoro ha voluto continuare a occuparsene, intervistando Enzo Ciconte, docente di storia delle mafie italiane all’Università di Pavia. Ciconte è stato deputato e consulente presso la Commissione parlamentare Antimafia e il primo a pubblicare nel 1992 un testo, ormai storico, sulla mafia calabrese dal titolo ’Ndrangheta dall’Unità a oggi, edito da Laterza.
Quando e perché nasce la criminalità organizzata in Italia?
«Non è un fenomeno recente, nasce nell’Ottocento, inizialmente in tre regioni del Mezzogiorno. Abbiamo imparato a identificare le diverse criminalità organizzate in base alla zona: la mafia siciliana di Cosa nostra, la ’Ndrangheta in Calabria e la Camorra a Napoli. Si sviluppano principalmente perché riescono a sopperire alle mancanze dello Stato, in modo illegale, ad esempio favorendo qualcuno in cambio della sua lealtà, o offrendo un lavoro in aree depresse del Mezzogiorno».
Come operano le mafie, in quali settori riescono ad infiltrarsi meglio?
«Si inseriscono in tutti i settori in cui è possibile lucrare. Inizialmente c’era il pizzo, operavano nel settore degli appalti, in politica oppure effettuando il sequestro di persona a scopo di estorsione. Recentemente, la presenza più importante di attività mafiose riguarda lo smaltimento dei rifiuti tossici e il commercio e la distribuzione di droga, perché portano maggiori guadagni».
Di quale linguaggio comunicativo si serve la criminalità organizzata? Che ruolo ha l’omertà?
«Oggi i mafiosi usano un linguaggio comunicativo moderno e aggiornato, fanno conoscere la loro immagine tramite i social, mettendo in relazione il modello di vita di ciascuno di noi con il loro. L’omertà costituisce sempre un ostacolo per la giustizia, perché, se si sceglie di non parlare, mancano le prove e chi se ne avvantaggia è il criminale, non la società».
La mafia c’è anche nel Nord Italia? Qual è lo stato di salute dell’Emilia Romagna?
«Le zone principali in Emilia Romagna si concentrano nelle province di Reggio Emilia, Modena e Bologna, altre infiltrazioni minori si sono registrate a Rimini e Cattolica. La criminalità organizzata è penetrata in queste zone perché nel passato si è sottovalutata la loro presenza. Ciò che preoccupa è che alcune persone sono rimaste addirittura affascinate personalmente dai mafiosi, oltre che dai rapporti economico commerciali con loro. Ne è un esempio l’incontro tra un’imprenditrice bolognese e Nicolino Grande Aracri, capo della ndrangheta emiliana, da lei definito “onorevole”».
Come fa la mafia a instaurarsi nella società e a trovare consenso?
«Al nord la mafia si è instaurata perché si appoggia alla mentalità della società, alla volontà di fare soldi. Infatti a volte gli imprenditori chiedono ai mafiosi di svolgere lavori per loro, che altrimenti non riuscirebbero a fare. E data questa stretta collaborazione con i cittadini non sono denunciati. In Lombardia e in Emilia Romagna si sono verificati casi di testimonianze false, non tanto per paura, dato che in queste regioni la mafia non ha un pieno controllo, ma perché preferiscono una sanzione amministrativa o giudiziaria, piuttosto che inimicarsi questi potenti».
Come si riconosce un’impresa controllata da mafiosi?
«Si riconosce dalle proposte accettate da chi ne è a capo, dal fatto che usa soldi in contanti. Nei bilanci di un’impresa retta da mafiosi si dovrebbero verificare anomalie dovute alla necessità di riciclare soldi che non si possono depositare in banca. Se si incontra un mafioso lo si riconosce, dopo bisogna avere la forza di affrontarlo».
Cosa è emerso dal maxi processo Aemilia aperto nel 2015?
«Sicuramente che c’erano molte famiglie di ’Ndrangheta infiltrate in Emilia Romagna, che facevano affari e distribuivano droga. Ha coinvolto più di 200 imputati, ora in gran parte condannati».
Come considera l’efficienza con cui opera il sistema giuridico italiano in questo settore?
«Credo che in Italia abbiamo il sistema penale e gli organi investigativi migliori al mondo, perché abbiamo sempre avuto a che fare con la criminalità organizzata fin dalla sua nascita. In più il metodo investigativo del giudice Giovanni Falcone è stato esportato anche negli Stati Uniti ed è riassumibile nel semplice motto “segui il denaro”».
Come funziona la Commissione antimafia?
«La commissione antimafia è bicamerale, paritaria, composta da deputati e senatori, fa indagini specifiche e dettagliate ed è fondamentale per andare a fondo in determinati processi. Ha i poteri della magistratura, ma può anche arrestare durante un interrogatorio, quindi ha una capacità ispettiva molto forte».
Attualmente il contrasto alle organizzazioni mafiose rientra nell’agenda dei politici, delle autorità e delle istituzioni? Nell’ultima campagna elettorale se ne è parlato davvero poco, non trova?
«Dato che non fanno più stragi non fanno paura come una volta, quindi la loro presenza non è più sentita con preoccupazione dalla società. I politici si regolano di conseguenza, ma per fortuna ci sono magistrati e carabinieri che riescono a operare al meglio in una società sempre più consapevole ed educata, grazie alle scuole e all’organizzazione di conferenze sul tema. Quello della mafia è un problema sociale e culturale, prima che economico e politico».