IL CASTORO | «After Work»: il documentario di Erik Gandini racconta il «lavoro dopo il lavoro»

Romagna | 17 Dicembre 2023 Blog Settesere
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Alex Ballieu
Ogni giorno, milioni di studenti frequentano la scuola; e se i loro sforzi sui libri non venissero mai premiati? Negli ultimi decenni, una nuova variabile si è aggiunta al panorama globale del lavoro e alla nostra vita in generale: l’intelligenza artificiale, che ha acquisito appendici fisiche grazie alla robotica. Ora è in grado di svolgere una fetta considerevole dei lavori più ripetitivi, con un costo di gran lunga inferiore rispetto al lavoro umano. Attualmente circa 20 milioni di posti di lavoro sono occupati da robot. Ma quale sarà il futuro del lavoro? Da dove trarremo il nostro principale sostentamento? A sollevare questi interrogativi è After Work, un recente docufilm diretto da Erik Gandini, regista italo-svedese.
Nel film, alcuni lavoratori di diverse nazionalità raccontano la loro esperienza, affrontando numerose problematiche. Ad esempio, in America e Corea del Sud la maggior parte dei lavoratori rinuncia persino a ore di ferie pagate a causa di un senso di colpa schiacciante: si tratta di performative workaholism, che lega emotivamente gli individui alla professione, facendoli identificare totalmente con essa, trascurando la famiglia e gli affetti. La filosofa Elizabeth S. Anderson individua le sue radici nell’etica calvinista, dove il lavoro è considerato un mezzo per ottenere la salvezza divina. Nel corso del tempo, questa visione ha contribuito a creare ritmi lavorativi talvolta insostenibili.
Diverse aziende hanno tentato di affrontare il problema attraverso iniziative come lo spegnimento automatico dei computer e la riduzione dell’orario di lavoro, misure che si sono tuttavia rivelate insufficienti.
In un’intervista concessa al sito cinefilos.it, Gandini stesso afferma: «Faccio fatica a lavorare di meno, a staccare completamente». Per questo dedica alcune giornate al mese esclusivamente a coltivare rapporti e relazioni umane, allontanandosi dalla sua occupazione, mantenendo un equilibrio tra lavoro e vita personale. Non tutti, però, hanno la possibilità di staccare. È il caso di un’autista statunitense di Amazon, Astrid Moss, che nel film racconta le condizioni della sua professione: viene costantemente monitorata da diverse telecamere ed è costretta ad affrontare ritmi insostenibili, ogni giorno.
Si tratta di sfruttamento sul lavoro, un problema diffuso in tutto il mondo che, oltre a mettere in pericolo la salute delle persone, si ripercuote in modo negativo sulla società nel suo complesso.
Per limitare e contrastare il fenomeno, enti come l’Organizzazione internazionale del lavoro monitorano e studiano le condizioni dei lavoratori a livello mondiale.
Ma assistiamo anche al fenomeno opposto. Stiamo parlando dei Neet: l’acronimo significa Not in education, employment, or training e indica la fascia di persone che non studia, né lavora, né riceve una formazione. Il fenomeno in Italia si concentra in particolare nella fascia dei 25-30 anni, in cui i Neet rappresentano il 28,8% della popolazione totale: una fetta considerevole, che porta l’Italia al secondo posto nella classifica dei paesi con più Neet dell’Ue.
È una delle conseguenze della crescente mancanza di lavoro, che il film approfondisce citando il caso del Kuwait: un piccolo stato ricco di giacimenti petroliferi dove ai dipendenti pubblici, non di rado, capita di venir pagati semplicemente per presentarsi sul posto di lavoro, senza svolgere effettive mansioni. «In due mesi di lavoro, mi è stato chiesto di girare una lettera» spiega Meqss Al Kout, segretaria comunale kuwaitiana.
Con l’avvento dell’automazione, questo scenario si sta manifestando sempre più frequentemente: quale può essere una possibile soluzione? A questa domanda risponde Elon Musk, che nel documentario propone l’introduzione di un reddito individuale universale: una somma di denaro mensilmente distribuita a ogni abitante del mondo, a prescindere dalle condizioni economiche.
Quindi, se non fosse più necessario lavorare, come occuperemmo il nostro tempo? Per evitare di annoiarsi, è necessario essere curiosi e sviluppare interessi diversificati, sostiene una ricca ereditiera intervistata. Nell’antichità, la parola plurisemantica otium significava «tempo libero dalle occupazioni della vita politica e dagli affari pubblici (cioè dai negotia)». Dedicarsi all’ozio era quindi un atto con il quale si rivendicava tempo per se stessi, per curare l’interiorità e il benessere personale. Questa cultura, oggi, sembra tramontata. La sua mancanza si riflette nella tendenza di certi lavoratori a vivere l’impegno professionale con un efficientismo esibito, forse per dimostrare come il lavoro coincida con la loro identità.
Di conseguenza, che senso sapremo dare al nostro tempo e alla nostra esistenza, in assenza di ciò che prevalentemente li caratterizza? Una domanda che in After Work resta aperta, in attesa di una risposta dal nostro futuro.

 
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