I «Sonetti Romagnoli» commentati in 850 pagine nelle parole del curatore Renzo Cremante

Romagna | 13 Marzo 2021 Cultura
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Federico Savini
«Non vorrei ingannarmi perché ci ho dedicato così tanto tempo, ma credo davvero che questa nuova edizione dei Sonetti Romagnoli possa restituire a tutto il mondo culturale italiano un’immagine nuova di Olindo Guerrini, che gli permetterà di occupare il posto che gli spetta tra i maggiori poeti della sua stagione». Renzo Cremante è visibilmente soddisfatto del lungo lavoro che lo ha portato finalmente a vedere la pubblicazione - per l’editore ravennate Longo - della nuova e monumentale edizione dei Sonetti Romagnoli di Olindo Guerrini, un libro che ogni romagnolo dovrebbe possedere. E’ stato anche per superare certe stereotipizzazioni locali che il progetto della revisione critica dei sonetti è stato affidato a Cremante, che non è un romagnolo ed è ordinario di Letteratura italiana all’Università di Pavia. Più volte annunciata fin dal 2016, quando in occasione del centenario della morte di Guerrini nacque a Sant’Alberto l’associazione Amici di Olindo Guerrini - presieduta da Paolo Belletti -, questa nuova edizione dei Sonetti Romagnoli si presenta come un’pera davvero imponente: 850 pagine alle quali hanno collaborato anche Carlotta Sgubbi, Franco Gabici e Giuseppe Bellosi, con le stesure originali dei sonetti, desunte dagli autografi e confrontate coi testi pubblicati nel 1920. Tutti i sonetti sono stati tradotti da Giuseppe Bellosi e i commenti di Cremante sono dettagliatissimi. «Il commento critico in effetti è molto ricco - conferma Renzo Cremante -, forse persino troppo! Però è un commento piuttosto esuberante, divertito e pieno di dettagli e aneddotica».
Quanti anni di lavoro ci sono dietro?
«Preferisco non contarli! Di sicuro il lavoro è partito molto prima del centenario guerriniano, poi nel 2016 tutto quanto si è intensificato. A contattarmi fu la Cooperativa Culturale di Sant’Alberto, poi sostanzialmente evolutasi negli Amici di Olindo Guerrini. Accolsi da subito molto volentieri la proposta di lavorare sul Guerrini dialettale. Tra l’altro parliamo di una cooperativa che a suo tempo fu fondata niente meno che da Zavattini e ne ha fatto parte anche la compianta Giovanna Bosi Maramotti».
A cosa si deve, principalmente, l’ampiezza del volume?
«Ci ho lavorato con molto zelo e l’ampiezza di deve anche ai molti indici di nomi, citazioni e luoghi menzionati da Guerrini, che vengono censiti con precisione. È un volume complesso non l’ho voluta definire proprio un’edizione critica, per non sminuire proprio l’esuberanza delle note. Da questo punto di vista è quasi un libro di storia, c’è dentro tantissima cronaca ravennate tra Otto e Novecento, perché Guerrini attingeva molto dai fatti della sua epoca e del suo territorio. E poi ci sono analisi comparate con quelli che certamente furono i maggiori modelli di Guerrini, ossia Giuseppe Gioachino Belli e Carlo Porta, i giganti della poesia vernacolare italiana ottocentesca. I Sonetti romagnoli ne escono come un’opera di rilievo nazionale nel panorama poetico italiano fra Otto e Novecento».
Anni fa mi disse che le interessava il paradosso della fama di Guerrini: famoso a suo tempo in tutta Italia - più di Carducci! - e poi rimasto un mito solo in Romagna, e quasi esclusivamente per la sua produzione dialettale. Come mai?
«I Sonetti Romagnoli uscirono postumi e non vennero tradotti. Questo naturalmente ne compresse il raggio d’azione alla sola Romagna e un’epoca in cui Guerrini era già morto. Tra l’altro l’edizione Zanichelli del 1920 divenne ben presto incompatibile con il Fascismo, con immaginabili conseguenze. Da una parte l’anticlericalismo di Guerrini mal si conciliava con la linea intrapresa con i Patti Lateranensi e dall’altra la politica fascista, a un certo punto si rivolse contro il dialetto, dopo averlo sfruttati per i suoi retaggi tradizionalisti in una prima fase. Non a caso la rivista di Spallicci, La Piè, venne chiusa dai fascisti. Io ho cercato si sottrarre Guerrini all’ottica localistica. È vero che in copertina c’è lui che fuma la pipa, la caratena, ma al di là di questa immagine Guerrini è un autore nazionale, che ha utilizzato la la poetica comica del dialetto legandola non solo alle occasioni conviviali. Semplicemente, Guerrini capì prima degli altri che in certi casi il dialetto è una lingua più espressiva ed efficace dell’italiano».
In vita Guerrini pubblicò solo in italiano. Che rapporto aveva con la sua produzione dialettale?
«Scrisse in dialetto in due diverse fasi. La prima fu al principio degli anni ’70 dell’Ottocento, quando proprio nacque come poeta, attraverso Stecchetti, il suo pseudonimo più celebre. Di fatto pubblicò anche dei testi in dialetto, che però non andarono oltre alcuni giornali locali ravennati. Dopo una lunga pausa, riprese a scrivere poesie in dialetto - e questa volta solo in dialetto - dall’inizio del Novecento. Senza però pubblicarle. Aveva comunque dato un ordine al suo canzoniere dialettale, tant’è che l’edizine pubblicata dal figlio nel 1920 seguiva le sue indicazioni».
Anni fa ci raccontò che l’ultimo Guerrini era il più influente. Quello che per alcuni aspetti prelude alla poesia romagnola del pieno novecento, rovellosa e dai tratti dolorosamente umoristici…
«È stato il principale modello di Raffaello Baldini, molto più che Spallicci, non ci piove. Tant’è che Baldini lo ha riconosciuto e parliamo di poeta riconosciuto come uno dei più grandi del panorama italiano del secondo Novecento. Ribadisco che la stereotipizzazione, ancorché affettuosa, che i romagnoli hanno riservato a Guerrini lo ha impoverito».
Nella nuova edizione dei Sonetti cosa c’è di nuovo?
«La cosa che spicca è che si passa dai 252 sonetti dell’edizione classica a 299, alcune inseriti in appendice e altri nel posto che l’autore voleva riservargli. Ad esempio all’interno del poemetto E Viaz ci sono 11 sonetti in più, che non è nemmeno chiaro perché fossero rimasti fuori. Ad ogni modo sono partito dalla ricognizione completa dei manoscritti, alla biblioteca Oriani di Ravenna ma anche in altre e ho rispettato la grafia degli originali».
C’erano delle censure?
«Diciamo che l’edizione classica è piena di correzioni eufemistiche, di allusioni ai potenti che scompaiono e di puntini di sospensione e di “porca puttana” che diventano “porca miseria”. Cose così…».
L’importanza delle originali?
«Sta in particolare nel fatto che Olindo Guerrini è, in buona sostanza, il primo poeta dialettale romagnolo. Non ha alle spalle una tradizione, come Carlo Porta, quindi è molto importante essere rigorosi sui versi originale. La scrupolosa traduzione di Giuseppe Bellosi è utilissima ai lettori per la comprensione. Io che non parlo romagnolo, anche se lo capisco, ho notato aspetti linguistici interessanti, come la varietà dei gradi di apertura della lettere ‘e’ e, ad esempio, il fatto che Guerrini non metta mai in rima le ‘e’ chiuse con quelle aperte».
Scoperte?
«Ne ho fatte tante. Ad esempio, attraverso documenti del club ciclistico di Bologna ho potuto ricostruire l’escursione che ha dato origine a E Viaz. In uno dei sonetti ad esempio Guerrini incontra un prete a Magenta, che aveva preso la sifilide e quando glielo dicono il parroco bestemmia e così via. Ho scoperto che si trattava di un personaggio assolutamente reale e spesso oggetto di attenzioni sulla stampa anticlericale dell’epoca…».
È possibile che questa nuova edizione dei Sonetti Romagnoli rilanci la figura di Guerrini sul piano della cultura nazionale?
«Penso proprio di sì, in particolare l’opera del poeta di Sant’Alberto vale come peculiare rilettura del realismo di Porta e Belli, in una chiave assolutamente originale. Sicuramente per tanti lettori il dialetto rimarrà un ostacolo, ma le lunghe note, le spiegazioni metriche e stilistiche e le traduzioni faranno arrivare la sua poesia e un nuovo pubblico. In fin dei conti, un giovane che oggi legga Dante lo approccia come se scrivesse in una lingua straniera, no?».
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