Gli over 75 e il Coronavirus: "Ai tempi della Guerra ci bombardavano, ora facciamo le videochiamate"

Romagna | 18 Aprile 2020 Cronaca
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Barbara Gnisci e Silvia Manzani
«Credo che il parallelismo con la guerra sia fuori luogo. Io sono nato nel 1938, ricordo che dopo il 1945 sapevamo che era davvero finita. Si contarono i morti, certo. Ma si ricominciò anche a vivere e ricostruire. Questa volta, invece, nessuno sa quando finirà. E anche quando finirà, chi avrà il coraggio di andare al ristorante?». Frediano Baldi, di Savarna, sta passando questo periodo con serenità: «Per fortuna ho un giardino che mi consente di stare all’aria aperta. Inoltre, ho dato la mia disponibilità ad Auser per fare la consegna dei farmaci a domicilio, cosa che mi permette di uscire. Per il resto leggo, ascolto musica e riordino, quei classici lavori che non ci si trova mai il tempo di finire». Non ha angosce legate all’età, invece, Frediano: «Io credo che, della malattia, abbiano più paura i giovani, perché hanno la vita davanti. Io la mia vita l’ho fatta, ho persino continuato a lavorare nel movimento cooperativo, dove ero stato dirigente d’azienda, dopo la pensione. Non sono padre, quindi non ho le preoccupazioni che potrebbe avere chi ha figli e nipoti. Mi mette forse un po’ di paura lo sconquasso generale che il Coronavirus, sia dal punto di vista economico che psicologico, sta creando. Per il resto, rifletto sempre più spesso sul fatto che in Italia la popolazione è anziana, le istituzioni pubbliche non riescono a farsene carico in circostanze normali, figurarsi adesso: a rimetterci, ancora una volta, sono i più vecchi, non c’è nemmeno da scandalizzarsi». 

«DOV’È LA COMUNITÀ?»  
Sente la mancanza di un senso di comunità Ermanno Sangiorgi, 80 anni, faentino (nella foto): «Le mie abitudini sono cambiate tantissimo. Prima del Coronavirus andavo al bar, al mattino, per leggere i giornali e bere un caffè, e poi alla sera per due chiacchiere con gli amici. Il pomeriggio lo passavo nell’orto, che è a due chilometri da casa mia ed è il mio passatempo principale: ora non ci posso più andare ed è rimasta solo la casa: va bene, avevo dei lavori arretrati da fare, cose che mia moglie mi chiedeva da anni. Ci ho messo una settimana a sistemare mezza cantina. Al momento si è costretti a una vita più ritirata, incentrata sull’oggi, senza programmare pranzi con figli e amici, oppure le vacanze». Residente a Granarolo faentino, ferroviere in pensione, a Sangiorgi fa specie salutare amici e conoscenti da lontano, con la mascherina: «Mi dà più fastidio questa situazione che la guerra che ho vissuto quando ero piccolo. I primi soldati arrivarono nel maggio del ‘44 e bombardarono completamente Faenza. Poi nel novembre arrivarono gli inglesi e ci fecero sfollare. Noi andammo sul colle Santa Lucia: ricordo i rimbombi e il fumo giallo, ma quando si fermavano i bombardamenti, si tornava, anche se per poco, alla normalità e ci si riuniva. Questo virus che crea paura, perché non si vede, tiene invece tutti a distanza».

«UN’INCERTEZZA DIVERSA»
Era peggio l’incertezza della guerra, rispetto a quella di oggi, secondo Rosalba Rafuzzi (nella foto) nata nel 1941 e residente a Faenza: «Ero una bambina piccola, allora. Ma alcuni momenti sono bene impressi nella mia memoria: mia madre si accorse di essere incinta di mio fratello dopo una settimana che mio padre era partito per il Sud. Tornò giusto per conoscere suo figlio e rivedere me, poi la linea gotica tornò a dividerci anche dopo lo sbarco degli Alleati e l’armistizio. Per due anni non sapemmo nulla di lui. Noi vivevamo in centro, una zona bombardata. Mia madre si trasferì dalla sorella con mio fratello che aveva problemi di salute, io fui affidata ai nonni paterni e a una zia nubile, che vivevano a Sant’Andrea. I morti sull’aia li ho visti, quando rileggo “Alle fronde dei salici” di Quasimodo mi passano ancora davanti». Insegnante in pensione oggi attiva all’Università degli adulti, Rosalba ricorda anche quando la casa dei nonni venne bombardata e la famiglia scappò verso Formellino seguendo i solchi lasciati dagli aratri nei campi: «Il Coronavirus è un’altra storia. Io adesso studio, leggo, cucino, lavoro all’uncinetto. Sento mia figlia, che vive a Roma, con le videochiamate. Scambio ricette con le amiche su WhatsApp. Insomma, la sto vivendo bene, anche se ho perso mio fratello Alberto da poco, proprio perché il Coronavirus ha aggiunto complicazioni ai problemi che già aveva, purtroppo. Mi sostengono la fede e la il pensiero che lui non avrebbe mai voluto che io e il resto della famiglia ci piangessimo addosso».

«NON SI SCHERZA»
Molto infastidita dal paragone con la guerra è Annunziata Verità detta «Nunziatina», 94 anni, faentina, la staffetta partigiana che nel 1944, al cimitero di Rivalta, dopo la condanna a morte da parte dei fascisti scampò alla fucilazione alla schiena e poi al colpo di grazia, che le sfiorò la tempia. Protagonista del libro di Claudio Visani «La ragazza ribelle», l’anziana ammette di essere abbastanza tranquilla, anche se non potere nemmeno uscire di casa per una passeggiata in carrozzina con la badante le pesa: «Più o meno, comunque, continuo con la mia vita di prima. Però non mi si dica che la guerra era la stessa cosa: io l’ho vissuta sulla mia pelle. La guerra è la guerra e non si scherza».. 

«UN DISASTRO»
D’accordo anche Oliviero Gallamini, quasi 87 anni, a Casal Borsetti conosciuto come «Mantlena»: «Nella mia vita ne ho viste di cotte e crude: ho sofferto la fame all’epoca di Mussolini, poi venni mitragliato dai tedeschi ma mi salvai. Andai a portare da mangiare ai partigiani con i tedeschi in casa e andò bene. Senza contare i colleghi morti dopo aver lavorato in mezzo all’amianto. Ciò nonostante, spero che questa storia del Coronavirus finisca il più presto possibile, perché mi sembra un disastro: la sensazione è di combattere contro un nemico che non sai dove sia». Oliviero passa le giornate in garage a fare reti da pesca: «Quando esco per andare a comprare il pane, mi organizzo per bene con guanti e mascherina e disinfetto i pomelli del mio carretto sia all’andata che al ritorno. In negozio resto a debita distanza. Questo non significa che io abbia paura per me stesso: temo per le mie nipotine, questo sì. Io la mia vita l’ho fatta».
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