Faenza, un libro di Mauro Gurioli testimonia, con schede e immagini, ciò che la guerra ha cancellato dalla città

Romagna | 19 Gennaio 2020 Cronaca
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Sandro Bassi - Opera pressoché unica nel panorama editoriale locale, è uscita «Faenza ritrovata. Storia e immagini della città che la guerra ci tolse» (di Mauro Gurioli, 240 pagg. con foto d’epoca in b/n, ed. Tempo al Libro, 15 euro).
Con la preziosa collaborazione della Fototeca Manfrediana, che ha rintracciato nel proprio archivio la stragrande maggioranza delle immagini, e con quella di Stefano Saviotti che ha redatto le relative schede, Gurioli ricostruisce quel che l’ultima guerra ci ha portato via. E non è poco: ben 25 importanti edifici (o complessi di edifici), fra cui 4 porte sulle antiche mura, 3 campanili, un istituto di pubblica assistenza, 3 chiese, il Borgo Durbecco nella sua quasi totalità, le Osteriacce sulla via Forlivese, 5 palazzi, 2 ville, la Caserma di San Domenico, l’antica Stazione ferroviaria di via Caldesi, il Lavatoio del Portello, il pubblico Macello e la Filanda Nuova.
Il conto è infinitamente più alto se si considerano anche gli immobili danneggiati in maniera più o meno grave e faticosamente riparati: la Torre dell’Orologio, il Museo delle Ceramiche, la Biblioteca Comunale, il Vescovado, ben 6 campanili, l’intero complesso dei Cappuccini assieme ad altri 4 conventi, 1 orfanotrofio, Palazzo Mazzolani, Villa Stacchini, la Caserma Pasi, la Stazione ferroviaria nuova, il Sobborgo Marini e il Borgotto, il Cinema Modernissimo, la Pescheria, 5 ponti e un cavalcavia e il Palazzo degli uffici Pubblici. 
Ancora, il conto è comunque più alto se si prendono in esame i singoli edifici: basti dire che il Borgo, in questo elenco computato con un’unica voce, fu danneggiato nel 97 % dei suoi immobili, già sconvolti con i bombardamenti alleati del 2 e 13 maggio ‘44, in parte fatti saltare a colpi di mine dai gustatori tedeschi in ritirata, demoliti in maniera inevitabilmente frettolosa dagli stessi alleati (che fecero di tutta l’erba un fascio, complice anche la fame di inerti per ripavimentare le strade), oppure non ricostruiti in seguito anche se i parametri statici e urbanistici lo avrebbero potuto consentire; resta il fatto che illesi risultarono solo il 3% degli edifici stessi. Qualcosa del genere si può dire anche per il Sobborgo Marini ed il Borgotto.
Giustamente il libro non fa capziose distinzioni fra le bombe degli Alleati e le mine o gli incendi dei Tedeschi perché la guerra è sempre sporca e colpisce indiscriminatamente, nel mucchio, anche quando ha giustificazioni - si fa per dire - tecniche o tattiche.

L’ITINERARIO
In maniera del tutto soggettiva e discutibile, vediamo una parte del patrimonio perduto.
Intanto le quattro porte cittadine, arrivate al 1944 (solo la Ravegnana era stata demolita in precedenza, nel 1870, ed è quindi vittima di «danni di pace») e tutte distrutte dai Tedeschi con la parziale eccezione di Porta Candiana per la quale vanno piuttosto chiamati in causa i cittadini stessi che la smontarono letteralmente nei primi mesi del ’45 per riciclarne i mattoni. 
Poi i campanili: se il caso più doloroso è quello dei Servi, che nella sua rovina (17 novembre ‘44, per mina tedesca) uccise una famiglia e travolse almeno due opere d’arte di prim’ordine (di cui oggi restano solo pochi resti recuperati fra le macerie ed esposti al Museo Diocesano), vanno menzionati anche quelli della Santissima Annunziata e di Sant’Antonino, in Borgo, vicini tra loro ed entrambi modesti come dimensioni, distrutti e mai più ricostruiti. Caso a parte è quello di Sant’Agostino, fatto saltare dai Tedeschi il 27 novembre ‘44 con conseguente crollo dell’abside della chiesa e di parte della navata: polverizzate furono le cantorie dell’organo, l’organo stesso e i settecenteschi stalli lignei del coro. Poco meglio andò alla «torre barbara» di Santa Maria Vecchia, medievale, poeticamente cantata da Dino Campana e impietosamente decapitata a colpi di artiglieria nei primi di dicembre 1944. E’ vero che con la ricostruzione, terminata nel 1952, si colse l’occasione per ripristinare filologicamente la sommità originaria, romanica e piatta (mentre quella esistente era stata rifatta a cuspide in epoca gotica trecentesca), ma andarono comunque perse quasi tutte le parti lapidee, soprattutto le colonnine delle polifore e i relativi capitelli, di pregio scultoreo. 
Altrettanto doloroso il bilancio delle chiese perdute per sempre: San Bernardo, in Corso Saffi fra la via omonima e quella dell’Anconetano (oggi c’è un condominio), Sant’Orsola in fondo a Corso Matteotti (oggi c’è un edificio con due negozi) e San Michele, tra la via omonima e la Torricelli, di cui restano solo poche tracce, sostanzialmente un cornicione in cotto ricostruito nel 1947. Ma bisogna anche ripercorrere le vicende tragiche di chiesa e convento dei Cappuccini, rasi al suolo dalle dodici bombe sganciate dagli aerei alleati il 24 settembre 1944. Rimase in piedi fra le macerie solo la cappella del Crocefisso, restaurata e congiunta alla chiesa rifatta ex novo a partire dal 1946. Della vecchia chiesa, che si trovava a destra della cappella, rimase solo una parte dei muri perimetrali, portati in luce di recente. Si possono citare anche i conventi di Santa Caterina in via Ceonia e di Santa Chiara in via della Croce: sul primo caddero 16 o 18 bombe che devastarono due terzi dei fabbricati e uccisero una monaca ferendone altre due; il secondo vide l’irruzione della Pubblica Sicurezza nella sera del 4 dicembre 1943 per l’arresto di Amalia Fleischer, insegnante ebrea che venne poi deportata e uccisa ad Auschwitz. Il monastero di Sant’Umiltà di via Bondiolo venne invece colpito sia dalle bombe inglesi che dalle granate tedesche (le ultime lanciate dal fronte dal Senio il 6 aprile ’45!). 
Per l’edilizia civile l’elenco sarebbe lunghissimo ma citiamo solo il caso del piazzale 2 giugno, vuoto urbano oggi adibito a parcheggio e creatosi per la distruzione e mancata ricostruzione del Palazzo Ricciardelli Rossi, che qui sorgeva; l’adiacente Palazzo Bandini-Spada, appena più spostato verso Porta Imolese, venne distrutto in gran parte con il bombardamento del 13 maggio ‘44: era rimasta intatta la facciata che però fu successivamente demolita per far posto al condominio attuale. Di entrambe le dimore restano solo gli attergati, con le cosiddette «loggette» (del Trentanove e del Tomba) oggi di proprietà Muky ed adibite a iniziative culturali. Ma anche il terzo, limitrofo Palazzo Borghi-Rossi venne distrutto dalle stesse bombe e non più ricostruito. 
Per le opere mobili si potrebbero citare i moltissimi volumi perduti nell’incendio della Biblioteca Comunale e le ceramiche dell’omonimo Museo (quest’ultimo vide anche la quasi totale distruzione del contenitore e dei contenuti, trasferiti preventivamente in rifugi di campagna e però in almeno due casi interamente distrutti anch’essi), in piccola parte faticosamente recuperate dalle macerie da volontari faentini e successivamente restaurate per quanto si poteva.

PER FINIRE
In conclusione, Faenza ha pagato un prezzo altissimo alla guerra, con danni all’87 % degli edifici, 726 dei quali (pari al 30%) interamente distrutti, 558 (22%) gravemente sinistrati e 825 (35%) colpiti in modo meno grave. Naturalmente, tutto questo è niente in confronto alla perdita di vita umane che non poté nemmeno esser quantificata con esattezza prima della certosina analisi di Giuliano Bettoli che accertò la morte - limitandosi solo ai residenti faentini, i combattenti esterni sono altra dolorosa cosa - di 309 militari e 1013 civili, per un totale di 1322 vittime, del tutto innocenti.
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