Sandro Bassi - Palazzo Pasolini Zanelli, in Corso Mazzini 52 (angolo con via Zanelli), si configura come uno dei migliori esempi di barocco faentino settecentesco. Da lunedì 28 il nostro settimanale avrà la propria sede in questo luogo storico di Faenza. Una lapide in facciata del 1907 ricorda il principale evento (o meglio, quello più famoso e quindi più ricordato) legato al palazzo: il soggiorno del poeta e letterato Giosuè Carducci che era amico dei proprietari. Tuttavia la storia del sito è antica e gloriosa perlomeno a partire dalla metà del XVIII secolo, quando il conte Scipione Zanelli fece ristrutturare l’antica dimora di famiglia su progetto di due notevoli capimastri-costruttori (il titolo di architetto all’epoca non era ben definito) come Raffaele Campidori e Gian Battista Boschi. Essi disegnarono un palazzo a tre piani, dalla mole imponente ma ingentilita da finestre vezzose, sormontate da una cornice mistilinea racchiudente una decorazione in stucco. Non si tratta di un caso unico a Faenza (altri esempi sono nella parte settecentesca di Palazzo Ferniani, poi nei Palazzi Ghetti, Bracchini, ecc. ) e però qui le soluzioni estetiche sono particolarmente riuscite ed eleganti.
Un ampio portale su Corso Mazzini immette nell’androne che fa da disimpegno, permettendo l’accesso al cortile e allo scalone sulla destra. Quest’ultimo presenta ancora gli originali gradini in arenaria scura, consunti dal tempo e dal passaggio ma ovviamente non sostituibili se non con copie che snaturerebbero l’insieme. Originale è anche la balaustra in «gessolone» bianco-panna screziato, una pietra proveniente da cave nel forlivese (tipicamente dai dintorni di Meldola) da tempo esaurite. Al piano nobile, il primo, troviamo cinque ambienti sempre di metà ‘700 che presentano la tipica decorazione sui soffitti - apparentemente affrescati ma in realtà dipinti con brillanti tempere a secco - che a Faenza vanta una lunga tradizione, perdurante per tutto l’Ottocento e anzi fino ai primi del secolo successivo. Questa decorazione risale agli anni ’40 dell’Ottocento ed è opera di tre faentini geniali come Gaspare Mattioli in collaborazione con Antonio e Romolo Liverani.
Al primo spettano le scene nei riquadri centrali ispirate ad un soggetto storico e letterario fiorentino che fa da «pretesto» per celebrazioni patriottiche di tipo nazionale (anche se l’Unità d’Italia è ancora lontana) e che narrano la tragica vicenda di Niccolò dei Lapi, protagonista dell’eroica resistenza antimedicea negli anni 1529-1530 della Repubblica fiorentina. L’episodio fu oggetto di una rivisitazione romanzata a firma di Massimo D’Azeglio e pubblicata nel 1841, data che fa da «fossile-guida» per le nostre pitture, che devono appunto esser state eseguite poco dopo. Ai fratelli Liverani, Antonio e Romolo, spettano rispettivamente gli ornati (decorazioni di fondo, tipicamente a grottesche secondo la moda tardo-neoclassica) e gli squisiti piccoli squarci di paesaggio in quella che era la camera nuziale: si tratta di paesaggi ispirati a vedute reali (un mulino, un ponte su fiume che ricorda quello «delle Torri» distrutto non a caso proprio nel 1842, un notturno al chiar di luna e un colle con chiesa e alberi fronzuti), trasfigurati da una fantasia visionaria perfettamente coerente con il clima romantico dell’epoca.
Il palazzo resta, come detto, famoso per i ripetuti soggiorni di Giosuè Carducci che tra fine ‘800 e primi del ‘900 frequentò la dimora più volte. La prima fu nel 1887 quando il Carducci, toscano di origine ma titolare della cattedra di lettere a Bologna, fu invitato dal conte Giuseppe Zanelli che era stato suo allievo all’Università e dalla moglie Marina Baroni Semitecolo.
Tuttavia va ricordato un altro ospite illustre: Napoleone Bonaparte, nientemeno, che si era fermato qui il 27 febbraio 1797, sempre ospite dei conti Zanelli, di ritorno da Tolentino dove aveva posto fine alla «campagna d’Italia». Napoleone è raffigurato in una tempera sul soffitto dell’ultima stanza «in atteggiamento pensoso», appoggiato al caminetto di un salotto che è idealmente lo stesso in cui ci troviamo.
La sede di «Settesere» si trova al pian terreno, accessibile dal cortile interno recuperato nel 1911 e poi con un secondo restauro negli anni Ottanta-Novanta nel Novecento. In quell’occasione furono messi in luce, negli stipiti del passaggio fra androne e cortile, i due pietroni in trachite (roccia vulcanica dei Colli Euganei, inconfondibile e largamente usata soprattutto in età romana) di spoglio, cioè riciclati da qualche importante edificio antico, presumibilmente romano.