Faenza, Samantha Casella e il cinema sommerso: «Film di sacrifici, più che di metafore»
Federico Savini
«Fare la regista non è avere il proprio nome stampato su una sedia, aspettando che il tuo film ti faccia diventare qualcuno. Per me è il contrario: sono io che dò me stessa al film, cercando di dargli dignità. Naturalmente mi fa sempre piacere quando mi dicono che ho talento, ma secondo me dietro ad un film la cosa che conta di più è il sacrificio. Se penso al rapporto tra abnegazione e talento, credo che la prima conti molto più del secondo. E non vorrei che nel mondo del cinema indipendente quest’ottica si perdesse, per correre dietro a facili soddisfazioni». Samantha Casella è una regista faentina che, dopo aver trascorso molti anni a formarsi negli Stati Uniti, ha intrapreso una carriera decisamente eterodossa, lavorando a cortometraggi e da qualche anno anche a lungometraggi (l’esordio Santa Guerra e il più recente Katabasis) nei quali la personalità artistica della regista - con i suoi tormenti, le fughe oniriche, il piglio talvolta anti-narrativo e l’ampio ricorso ad un potente linguaggio di simboli - emerge con chiarezza in un panorama internazionale che appare sempre più standardizzato.
C’è quindi da stupirsi fino a un certo punto che i film di Samantha Casella facciano incetta di premi in festival internazionali (centinaia di premi, beninteso), senza avere una distribuzione nazionale. E in particolare l’esposizione notevole di cui ha goduto all’ultimo festival di Venezia (dove per Katabasis ha vinto la miglior regia al premio Starlight, andato in passato anche a Garrone, Tornatore e Alice Rohrwacher) è un buon motivo per approfondire. «Un così grande coinvolgimento a Venezia era inatteso - commenta Samantha Casella -, ma credo si giustifichi, al di là della qualità di Katabasis che dev’essere giudicata da chi lo vede e lo vedrà, con la cura che metto da anni nella produzione e nella promozione dei miei film».
Per la prima volta, in Katabasis, sei anche l’attrice protagonista. Scelta convinta?
«Sì, anche se arriva dopo un lungo percorso. Già in Santa Guerra recitavo nel ruolo di un fantasma, e in quel film ci sono anche Maria Grazia Cucinotta e la bravissima Eugenia Costantini, per capirci, quindi parliamo di un cast di grande livello. Così come in Katabasis c’è ad esempio Bruno Bilotta, più famoso negli Usa che in Italia. Lo dico per sottolineare quanto mi interessino da una parte i personaggi ben scritti, di cui mi occupo io, ma anche le interpretazioni all’altezza. Avere vinto premi per il mio ruolo da non protagonista in Santa Guerra mi ha incoraggiato sul mio potenziale come attrice. Così, per Katabasis, che in realtà è un film narrativo pur raccontando di case-prigioni, drammi e bugie figlie di un vissuto molto personale, a un certo punto ho capito che potevo essere solo io la protagonista. Quando scrivo un personaggio ho subito in mente la faccia che deve avere, quindi il casting è molto accurato. In questo caso chi ha letto la sceneggiatura ha insistito perché la protagonista fossi io. E dato l’impegno fisico di questo ruolo, che prevede anche di scottarsi con la cera calda e cose del genere, alla fine ho pensato che la scelta più giusta e inevitabile fosse quella di tenere il ruolo per me».
Come stai distribuendo il film?
«I festival fanno parte di un percorso di visibilità internazionale che spesso si riverbera sulla distribuzione. Ci sono mercati che hanno dinamiche lontanissime da quelle italiane. Katabasis per esempio è stato visto nelle Filippine, mentre Santa Guerra ha avuto una distribuzione in sala, oltre che nei festival, in India, Arabia Saudita e Iran, posti in cui è strano immaginare spazi per film del genere, e invece… So di essere un’outsider nel mondo del cinema italiano, ma ho fatto una scelta precisa. Con l’esperienza fatta in America avrei potuto tentare una strada canonicamente professionale nell’industria del grande cinema, ma ho scelto di fare le cose in cui credo. Non condanno assolutamente chi non lo fa, per me è un fatto concreto, e la mia scelta implica dei sacrifici. Curerò con attenzione la promozione internazionale di Katabasis, in festival di livello sempre più alto, per tutto l’anno prossimo, cercando poi una piattaforma».
Uno stile incompromissorio come il tuo è diventato una rarità anche nei festival del cinema, che una volta erano «la casa» di questo tipo di espressioni artistiche...
«Ho visto i festival cambiare negli anni, assecondando scelte artistiche che in teoria dovrebbero far aumentare il pubblico dei giovani, che in effetti latita, ma che poi in genere si rivelano fallimentari. Le nuove generazioni hanno gusti e abitudini di consumo diverse, e del tutto legittime. Ho dei dubbi che il tentativo di ingraziarseli con proposte commerciali non così distanti da quello che già vedono sullo smartphone sia la strada giusta per il futuro. Credo che andrebbero piuttosto accompagnati in un percorso di scoperta ed educazione alla diversità della visione».
La quasi invisibilità dei tuoi film in Italia ti disturba?
«Sicuramente mi piacerebbe proiettarli di più, al di là di occasioni come Venezia, ma personalmente non credo nella retorica del “fallimento”. Nel senso che se secondo me si fallisce quando non c’è sincerità in quello che si fa; solo questo è fallire. Un grande professionista del cinema commerciale non fa nulla di sbagliato, anzi. Credo sia più sbagliato porsi da indipendenti senza sfruttare davvero la libertà che l’indipendenza ti dà, scimmiottando magari un tipo di cinema che, banalmente, non hai i mezzi per fare».
Prossimi progetti?
«Sto scrivendo due film e uno, in effetti, necessiterebbe di un budget superiore a quelli con cui lavoro di solito. L’altro invece posso definirlo il completamento, dopo Santa Guerra e Katabasis, della “Trilogia del subconscio”».