Faenza, Paolo Cevoli in piazza con Pizzocchi e Giacobazzi: «I romagnoli: un mix di fatica e ‘ignorantezza’»
Federico Savini
«Non sono né uno storico né un sociologo, ovviamente, però conosco i romagnoli e quello che so del nostro passato mi dice che il fatto di partire con risorse limitate, di avere un territorio che per molti versi è complicato, ci ha costretti a rimboccarci le maniche. E questo ci ha fatto diventare ciò che siamo». Paolo Cevoli parla da comico, certo, ma intanto i comici stanno in mezzo alla gente, conoscono bene le persone, e poi parla se non proprio da storico per lo meno da divulgatore della Romagna. I video realizzati in questi anni per l’Apt sull’incoming turistico romagnolo parlano chiaro, e trasmettono ancora entusiasmo e amore vero per la nostra terra. Quell’amore che, certamente, Paolo Cevoli porterà in scena anche a Faenza, mercoledì 31 luglio in piazza del Polo, quando salirà sul palco con altri due giganti della comicità della nostra terra: Giuseppe Giacobazzi e Duilio Pizzocchi.
«È il secondo anno che ci esibiamo insieme, sullo stesso palcoscenico – racconta Paolo Cevoli -, ma ci conosciamo ormai da un ventennio e credo che la cosa si avverta molto bene dalla nostra intesa».
In effetti Giacobazzi e Pizzocchi emersero insieme, con il Costipanzo Show, mentre la tua storia è un’altra. Potremmo quasi dire che la novitò sei tu…
«Sì, loro sono davvero amici di vecchia data, facevano il Costipanzo Show fin dai primi anni ’90, mentre io ho debuttato, di fatto, nel 2002, in una memorabile edizione di Zelig. Posso dire di essere loro amico praticamente da allora. Prima non ci conoscevamo ma ci lega la Romagna, ovviamente, oltre a un’intesa che si è vista subito. E a vent’anni da allora ci piace portare in scena».
Lo spettacolo sarà fatto di monologhi ma anche con molta interazione, giusto?
«Sì, e lasciamo dire che stare tutti e tre insieme sul palco della piazza di Faenza è una cosa che mi emoziona già, mi riempie di contentezza. Che poi, se vogliamo fare le pulci, Pizzocchi è un emiliano, anche se questo non ha mai fatto la minima differenza, ovviamente (ride, nda). Tengo molto alle nostre interazioni sul palco, perché funzionano molto bene e io ho portato avanti la mia carriera in modo indipendente da loro. Tra l’altro facciamo insieme anche un podcast, di cui sono uscite quattro puntate, che è interamente improvvisato e anche da questo si campisce che “funzioniamo” insieme».
A Faenza porterai in scena anche il mitico assessore Palmiro Cangini. Come funziona con i personaggi? Li crei, poi li abbandoni e li riprendi. C’è una regola?
«Una regola vera no, ma conta molto il senso pratico. Ora, io normalmente mi esibisco in solo ma Cangini è un personaggio, sgangherato e divertente quanto vuoi, ma che da solo funziona poco; per questo dal vivo non si vede tanto spesso. L’assessore ha bisogno di un contraltare, di qualcuno che gli faccia “da rimbalzo”, che faccia risaltare la sua cialtroneria. In questo spettacolo ho a disposizione non una ma addirittura due spalle eccezionali come Pizzocchi e Giacobazzi. Non potevo non approfittarne!».
Hai scritto un «Manuale di marketing romagnolo» e realizzato filmati molto riusciti per l’Apt. Ma alla fine hai capito come mai i romagnoli siano così attaccati alla loro terra?
«Me lo sono chiesto e me lo chiedo ancora spesso, ma in parte rimane un mistero. Lavorando al libro ho anche cercato di capire le origini storiche di questo nostro modo di vivere, che in parte è irriverente e canzonatorio, ma dall’altra è serio e pragmatico. I romagnoli sono famosi per il divertimento ma sono pure gran lavoratori! È qualcosa che ci rende unici, e credo dipenda da una serie di circostanze tra cui il fatto di partire da un territorio non perfetto e anche dalla miseria che quasi tutti i nostri nonni hanno sperimentato. Ci siamo inventati un modo di essere così come ci siamo inventati la riviera. E, a proposito di riviera, la decantata e verissima ospitalità dei romagnoli non vale solo al mare, perché va rintracciata nella nostre origini contadine, che sono solidali».
Anche l’«ignorantezza», di cui parli spesso, ha a che fare con questo?
«Credo proprio di sì, conosciamo la durezza della vita e ci siamo dovuti inventar tutto, o quasi tutto. L’ignorantezza ha queste radici, il nostro modo di fare un po’ spregiudicato lo ritroviamo anche nella grande dei nostri campioni, vedi Pantani che viene giustamente ricordato. Ecco, la nostra non è un’ignorantezza fine a sé stessa, perché ci serve per portare a casa dei risultati!».
Cosa pensi dei social network e del nuovo «mondo mediatico» della comicità?
«Vedo il bicchiere mezzo pieno, i social oggi sono una realtà più importante della tv; lo vede bene nelle abitudini dei miei figli, che comunque hanno meno di 40 anni ma la tv la filano pochissimo. Io sono stato “consacrato” da Zelig, che in quel periodo era davvero il massimo per un comico, e devo dire che aver vissuto quel periodo mi consente, ancora oggi, di venire percepito come evergreem, come Giacobazzi e Pizzocchi. Questo ci aiutò molto. Ovviamente non era semplice arrivarci e quello che è cambiato con i social è che oggi ci si può affermare letteralmente da zero, senza alcun bisogno della tv. Però ai social manca un aspetto cruciale, che è quello del live, della fisicità. Il post-Covid ha visto un grande boom degli show dal vivo e, magari suona paradossale, ma ho l’impressione che aver passato tutto quel tempo sui social network abbia un po’ “raffreddato” l’immagine dei comici e degli artisti in generale. Per questo poi dal vivo io non vedo solo gente che si diverte, io vedo un pubblico che mi vuole bene, mi cerca dopo lo spettacolo e mi dice che i miei video lo tirano su nei momenti difficili. È bellissimo, e i social permettono proprio di “avere Paolo Cevoli” ogni volta che ne hai bisogno. Ribadisco, però, che la parte dal vivo è fondamentale ed è necessariamente “altro” dai social, attraverso i quali ci si fa conoscere ma poi si deve andare sul palco. È lì che capisci quello che sei davvero per il pubblico, che avverti proprio un principio affettivo nelle persone».