Faenza, Mattia Liverani ha fatto incontrare il dialetto e l’inglese nel progetto «Romagna says»

Romagna | 24 Novembre 2020 Cultura
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Federico Savini
«First of all, t’a n’t’inchèza! This little book isn’t really a dictionary or a grammar book. More than anything, it’s an enjoyable collection of Romagnan words and phrases». Traduco, dato che in queste pagine mastichiamo la lingua di Stecchetti meglio di quella di Shakespeare: «Prima di tutto, non v’adirate. Questo libro non è davvero un dizionario o un compendio di grammatica. Più che altro, è una godibile raccolta di parole e frasi romagnole». Un incipit, quello di Fata roba, cio’! 100 romagnan words and phrases that you cant’ forget, da poco uscito per l’editore Tempo al Libro, che racconta molto di un’esperienza davvero peculiare, vissuta «all’interno» del mondo dialettale da due ventenni (uno nemmeno romagnolo), che hanno letteralmente trascinato il nostro vernacolo nei dedali di Instagram, dove il riferimento al «non arrabbiarsi» è quello tipico di chi cerca di evitare le risse virtuali gettando acqua sul fuoco dialettico dei social network, che si infiammano tanto più facilmente quanto più la materia è viva e pulsante. E toccare un romagnolo sul dialetto è come toccarlo sulla sua identità. Si sa. E adesso lo sanno anche i ventenni.
Tutto nasce nel 2019 dalla pagina Instagram Romagna Says, tanto originale da funzionare più che bene e smuovere le antenne dell’editore faentino Mauro Gurioli, che quest’anno ha messo mano al lavoro di Mattia Liverani e Luca Telmon, trasferendolo in un libro, fatto di divertenti pagine che cercano di spiegare nell’internazionale lingua inglese le più peculiari espressioni romagnole, con tanto di minuziose note fonetiche. A j’ho chêra, per capirci, viene tradotto con I rejoyce about it, e il trattamento tocca cento voci, tra le quali capisaldi assoluti come Pôchi patach, L’ariva Pirõ!, Sgavagnês, Strach môrt, Òcc a i spìgul, Tẽ bòta e Prema ch’u s’pò. Ma c’è di più: spesso le spiegazioni sono attinte dal vasto mare del mondo culturale (si passa disinvoltamente da Giovanni Verga al rapper Snoop Dog, da Giulio Cesare all’Eneide) e sul fondo di ogni pagina è possibile personalizzare la parola in questione (metti che siate riminesi e non vi vada a genio il dialetto faentino, che qui è predominante) nella sezione «A ca mi u s’dis / In my place we say». Che serve anche a mettere d’accordo tutti!
«L’inizio è stato Instagram - spiega Matteo Liverani -. Il mio amico Luca Telmon, pisano, mi ha segnalato che alcuni suoi amici stavano progettando pagine Instagram dedicate al confronto fra l’inglese ed espressioni dialettali italiane. In particolare stavano nascendo “Milano says” e “Toscana says” e Luca mi propose di farne una romagnola».
Non è del tutto inedito accostare il romagnolo e l’inglese, ma farlo su Instagram per opera di ragazzi così giovani è certamente una sfida nuova. Ti ci sei buttato subito?
«Non subito. L’idea mi piaceva ma non avevo tempo, fra l’Università e il lavoro al mare, così ho cercato di passarla ad altri amici ma alla fine mi è come rimbalzata addosso! Per non lasciare che se ne occupasse solo Luca, che non è romagnolo, ci ho lavorato anch’io. E devo dire che dopo l’iniziale riluttanza la cosa mi ha assorbito moltissimo. Siamo partiti con 5 post, alternando “a scacchiera” uno scritto ad una foto, sempre romagnola, e figurati che Luca era partito proponendomi un’immagine con delle gondole, perché su Google le aveva trovate come “riminesi”… Ad ogni modo, Luca studia in Olanda ed è quindi il referente per l’inglese, mentre io ho interrogato genitori e nonni per trovare espressioni peculiari, studiandomi anche libri e dizionari dialettali».
Riscontri?
«La pagina è partita benissimo, con solo poca promozione coordinata dalle pagine social mie e di Luca. Non abbiamo competenze di marketing ma abbiamo racimolato 200 follower in una settimana con solo 5 parole, anche scritte in modo un po’ sgangherato. Poi siamo arrivati anche a 1200 follower in una settimana e da lì anche la produzione di contenuti si è impennata. A fine 2019 stavamo sugli 11mila contatti, arrivati oggi sui 16mila. Condividevamo due foto con due parole al giorno, frutto di un lavoro di diverse ore quotidiane di scambi via telefono, fra me e Luca».
Come si arriva al libro?
«Intorno ai 10mila follower ci ha contattati Mauro Gurioli, che avendo saputo della pagina ha colto le affinità tra il nostro progetto e la sua casa editrice. Il libro per me è soprattutto una soddisfazione, non mi aspettavo grandi riscontri e ne ho avuto 50 copie, dall’editore, all’inizio dell’estate. Beh, a fine giugno ho chiamato Mauro perché le avevo già esaurite...».
L’inglese, che se vogliamo è la «prima lingua» di questo libro, è un ostacolo per il pubblico che legge il dialetto sui libri?
«Per alcuni purtroppo sì, certi signori anziani sono interessati all’operazione, ma poi faticano con l’inglese. Comunque penso che, anche se l’intento principale era quello di divertirci, alla fine Romagna says un po’ istruttivo lo sia davvero. Io, ad esempio, ho scoperto parole tipo scazignè, che a me suona remota. Spero possa contribuire nel suo piccolo a tener viva questa lingua».
Ma tu nella vita normale quanto lo parli il dialetto?
«I miei nonni sono tutti romagnoli e a casa loro si parla dialetto per l’80%. Io fatico a fare lunghi discorsi in romagnolo, ma capisco praticamente tutto quello che dicono».
Che il tono dell’operazione sia scherzoso è evidente, ma in effetti questa potrebbe essere la via migliore per mantenere vivo il dialetto, o per lo meno certe espressioni, tra le giovani generazioni, che spesso parlano meglio l’inglese del dialetto… O pensavate davvero ai turisti internazionali?
«Partendo da Instagram il nostro target è stato la fascia giovanile, dai 12 anni in su, con oltre l’80% dei follower che è under 35. Oggi ritengo che Instagram sia il più attuale fra tutti i social network. Su Facebook (che a dire il vero stando agli ultimi dati ha due volte e mezzo gli utenti di Instagram, certo mediamente più vecchi, nda) siamo approdati poi e lì abbiamo intercettato un pubblico adulto, la fascia dei nostri genitori in pratica. Il libro è stato lo step successivo, adatto a un altro pubblico ancora. Avevamo anche pensato di poter usare l’italiano, ma ci abbiamo rinunciato quasi subito, un po’ per la coerenza col progetto iniziale e un po’ perché Mauro Gurioli ci ha fatto notare che l’italiano finisce per “mangiare” il dialetto, lo sovrasta».
E’ encomiabile l’attenzione per l’aspetto fonetico.
«Eravamo partiti con i due accenti basilari e io già a distinguere fra quelli ho le mie difficoltà! Sapevo però che esisteva il problema e l’arrivo di Mauro è stato determinante per “disciplinare” con serietà questo aspetto. Tra l’altro, sui social si può venire persino assaliti (dai cosiddetti “grammar nazi”, nda) per un accento sbagliato!»
Segno che la materia dialettale è molto viva, in realtà. La possibilità, che lasciate ai lettori, di scrivere la stessa parola come la si pronuncia in altre province viene sempre da riscontri che avete avuto in rete?
«Sì. Come faentino che studia a Rimini, io avevo giusto la pulce nell’orecchio ma non credevo che così tante parole cambiassero da paese a paese! Su Ció ad esempio sono intervenuti tanti riminesi, perché loro dicono A dì, e non parliamo poi di crescione e cassone… Credo che, come romagnoli, alla fine ci unisca proprio il fatto di dare molta importanza a queste differenze».
Ci sentiamo depositari della verità assoluta che, immancabilmente, sta sempre dietro casa nostra…
«Sì, e per esempio dai social emerge che, al di là delle differenze sulle singole parole, più di tutto romagnoli vogliono essere distinti dagli emiliani. Appena abbiamo postato, ingenuamente, delle foto di Imola siamo finiti in una mezza odissea… Io ho sempre pensato che Imola fosse in Emilia (amministrativamente è così, nda), ma tanti follower mi chiedevano di inserire foto imolesi. Mauro Gurioli mi ha poi spiegato che da un punto di vista storico-geografico è legittimo considerarla romagnola, o quanto meno la questione è ampiamente dibattuta. Così, abbiamo praticamente diviso in due la città: la Imola che si sente emiliana e quella che si sente romagnola! Solo che poi è saltato fuori che la piadina imolese non può competere con quella romagnola, e a quel punto apriti cielo…».
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