Faenza, lo storico Enzo Casadio ricorda il contributo degli Alleati

Romagna | 25 Aprile 2020 Blog Settesere
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Sandro Bassi - «Comincerei con il dire che il 25 aprile è festa di tutti, non di parte, perché significa riconquista della libertà per l’intera nazione. Come data, sappiamo che è reale - il 25 furono proclamati lo sciopero generale e l’insurrezione in tutte le città e inoltre coincide con la liberazione di Milano - ma anche simbolica perché è ovvio che la Liberazione fu un processo assai lungo e che diverse parti d’Italia furono liberate giorni dopo, se non settimane».
Ad Enzo Casadio, storico e ricercatore faentino, autore di parecchi volumi su tutt’e due le Guerre Mondiali del ‘900 (basti ricordare «La battaglia di Faenza», con Massimo Valli, Bacchilega ed., 2004) e volontario nel Museo del Risorgimento e dell’Età Contemporanea, abbiamo chiesto «cos’è» per lui il 25 aprile e di commentarne il significato. Casadio, spirito libero e indipendente, premette che preferisce non parlare della Resistenza, «non perché non ne abbia rispetto, tutt’altro - precisa - ma perché credo che da un punto di vista militare sia stato molto più determinante il contributo degli Alleati, contributo che però viene spesso sottovalutato al punto che molti travisano anche il significato delle parole».
Cioè? In che senso?
«Già dal senso letterale: gli Alleati erano alleati fra loro, non dell’Italia che aveva sì firmato l’armistizio l’8 settembre ‘43 ma in cui poi era nata la Repubblica di Salò, filonazista. E’ vero che c’erano due Italie ma faccio presente che la nostra, quella settentrionale, era sotto controllo dei repubblichini - di fatto sotto controllo germanico ma il concetto non cambia - e quindi gli Alleati qui da noi si muovevano in territorio nemico; bombardavano, certo, per ragioni strategiche ma anche perché la nostra contraerea sparava loro addosso. Allo stesso modo faccio presente che l’Italia ha perso la guerra. Se al tavolo delle trattative siamo stati trattati con clemenza, o con più clemenza rispetto alla Germania, ecco, questo sì è merito anche della Resistenza che ha dimostrato il nostro riscatto. Ma ciò non toglie che eravamo seduti dalla parte dei perdenti...
Allora di Resistenza lei parla, comunque...
«Sì, ma i numeri dicono che per quanto il contributo dei partigiani sia stato patriotticamente ed idealmente prezioso, la portata militare fu un’altra: da Rimini a Bologna gli Alleati, pur molto prudenti e lenti (fu una loro strategia per diverse ragioni tattiche, non ultima quella di avere meno morti possibile), ebbero 12.400 caduti, suddivisi in 9.400 soldati del Commonwealth, più 1.600 polacchi e 600 italiani dei reparti Cremona, Friuli, Legnano e Folgore. Andrebbero aggiunti quelli della Brigata Majella, che sfuggono a tutti gli inquadramenti essendo volontari, non rispondenti al Cln ma neanche agli Alleati; eppure c’erano e morirono anche loro, anzi, faccio presente che furono loro a liberare Brisighella, ad esempio».
Ma qual è secondo lei la particolarità del territorio ravennate nella Liberazione?
«Che qui da noi sono passati tutti, forse con la sola eccezione dei brasiliani che furono impiegati più ad ovest, nel bolognese e parmense. Da noi son passati neozelandesi, nepalesi, inglesi, indiani, canadesi, sudafricani, polacchi, greci, ebrei, americani. Basta andare in qualsiasi cimitero di guerra per rendersene conto. Prendiamo Faenza: il suo cimitero degli Inglesi ospita ben 1.152 caduti di parecchie nazionalità, principalmente britannici e neozelandesi. Erano giovanissimi e sono morti per noi, una nazione lontana e neppure loro amica».
Quello di Faenza è l’ultimo importante cimitero del Commonwealth andando da est verso ovest giusto?
«Sulla via Emilia sì. Naturalmente gli Alleati ebbero molti morti anche dopo Faenza, ma quello di Faenza è l’ultimo cimitero degli Inglesi in senso vero e proprio. Sono d’accordissimo nell’indicare i cimiteri di guerra come luoghi di pace, di riflessione e di monito affinché tutto questo non succeda più. Aggiungerei che ciò vale anche per il cimitero dei Tedeschi: lo dico al singolare perché da noi c’è solo quello della Futa, secondo in Italia solo a Cassino ospitando oltre 30mila caduti. Sono nostri nemici, ma, a parte che di fronte alla morte siamo tutti uguali, basta guardare le date. La stragrande maggioranza è fatta di ragazzi dai 17 ai 20 anni. Qualcuno nazista fanatico, d’accordo, ma molti, moltissimi, vittime innocenti di una guerra che, come tutte, fu sommamente ingiusta».
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