Faenza, le «arabe fenici» di Nino Caruso al Mic
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Sandro Bassi
Le potenti opere di uno dei maggiori esponenti della ceramica italiana e internazionale del secondo Novecento sono in mostra al Mic di Faenza fino al 9 ottobre. Si tratta di «Forme della memoria e dello spazio», rassegna completa del percorso artistico di Nino Caruso (1928-2017).
Nato a Tripoli da famiglia siciliana emigrata in cerca di lavoro, Caruso è stato scultore e ceramista, certo, ma anche sperimentatore (soprattutto con il ferro e il polistirolo), designer, scrittore e divulgatore.
La mostra si apre con i suoi piatti del 1957, dalla grafica molto pulita, lineare, essenziale, debitrice della lezione di Picasso ma arricchita dalle suggestioni di un altro picassiano come Tono Zancanaro e di un suo conterraneo e amico, Salvatore Meli. Come Meli, Caruso sembra affascinato dai primitivi, di cui ripropone l’antica purezza. Sempre della fine degli anni Cinquanta sono le sculture antropomorfe, con rotondità da «dee madri» e vasi che riecheggiano le urne funerarie etrusche, le forme possenti dei sanniti o dei piceni, coniugando solidità e magia. Caruso sperimenta nuovi materiali, utilizza per le superfici sabbie di mare, ceneri, vetri macinati. Parallelamente, continua a lavorare il ferro, suo primo amore, e in mostra compaiono due saggi di quella poetica che si tradurrà nel Monumento alla Resistenza di Pesaro del 1964.
Ma la parte più significativa è sicuramente quella dedicata al rapporto con l’architettura: steli, cornici, modanature e «canne d’organo», spesso basate su moduli componibili e ripetibili serialmente. Le ceramiche di Caruso diventano rivestimenti per chiese, stazioni, metrò e grandi magazzini, diventano elementi di arredo urbano, diventano panchine, transenne, installazioni per giardini, fontane e monumenti. Il ragazzo venuto dalla Libia progetta ora memoriali di guerra (come quello, magnifico, di Bovino, del 1972) e riesce a far dialogare le sue sculture con fondali architettonici estremamente impegnativi: basti citare «l’impresa», riuscitissima, in piazza dei Consoli a Gubbio nel 1974.
Menadi e guerrieri, baccanti e vittorie, ma anche scudi e dischi che restituiscano la nuda bellezza della terracotta costellano gli anni Ottanta di Caruso. La mostra raggiunge il suo culmine con i portali, i dolmen, le steli e le erme a due facce degli anni Novanta e con i «feticci» (oggetti rituali dal sapore evocativo e dai titoli sempre onirici) del Duemila, che in un certo senso esprimono un desiderio di ritorno alle origini.
Ciò che possiamo e dobbiamo riconoscere a Caruso, oggi, oltre all’adamantina coerenza, è certamente la capacità di insegnarci come dal mito, dagli arcaismi, dalla fascinazione dell’antico possano nascere sempre nuove arabe fenici.