Faenza, la testimonianza di Martina Liverani, ideatrice della rivista Dispensa, per affrontare la quarantena con gusto

Romagna | 17 Aprile 2020 Le vie del gusto
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Martina Liverani - Ogni mattina, dalle 10 alle 12, se posiziono una sedia nell’angolo sinistro della cameretta, mi godo due ore di sole. E devo dire che l’abbronzatura già si vede. Ho il naso abbrustolito e il segno delle bretelle della canottiera sulle spalle. Non ho intenzione di abituarmi a questo surrogato di tintarella, sia chiaro, non vedo l’ora di andarmene in spiaggia a prendere il sole. 
Però non avevo mai notato l’esposizione al sole della cameretta, che fino all’8 marzo era solo la stanza in più di casa, dove stivare le cose inutili, appoggiare i panni da stirare e poco altro. Oggi praticamente è diventata il mio rifugio domestico, ho pure messo una pianta accanto al termosifone e una lampada sul tavolo. 
Sono in cattività, chiusa in casa da sei settimane. Per me è una grande anomalia, dato che negli ultimi 10 anni la mia vita è stata il contrario: viaggiare, in Italia e nel mondo, per visitare luoghi, provare ristoranti, incontrare cuochi e produttori. Io di lavoro scrivo di cibo. Quindi da sei settimane sto facendo tutto l’opposto: non frequento ristoranti, mangio a casa e dormo sempre nello stesso letto. Non vedo l’ora di riprendere la mia vita, sia chiaro. 
In queste settimane sono uscita pochissimo e solo per fare la spesa, esco il sabato mattina per andare in edicola, dietro casa, a comprare quotidiani che impiegherò poi i successivi sette giorni per leggere. Leggo pochissimo, ahimè, e non mi era mai successo dato che sono una lettrice seriale, ma non riesco a concentrarmi su qualcosa che non abbia a che vedere con questa brutta faccenda. Riesco a malapena a scrivere, lo devo fare per lavoro perché fortunatamente quello non si è del tutto fermato. L’unica cosa che riesco a fare con slancio è cucinare. Ma non cose troppe complicate per le quali servirebbe seguire una ricetta, no per carità. Cucino cose facili, cose da casa. Cucinare mi aiuta a passare il tempo e forse tiene acceso il contatto con la realtà e con la vita vera. Forse anche con quel tipo di vita che non vedo l’ora di riacciuffare: fatta di piccole cose semplici e genuine, che sono quelle che mi mancano di più. 
Vivo in un condominio, e per le scale si è tornato a sentire l’odore del soffritto e dell’arrosto. All’ora dei pasti, complici le finestre aperte, si ascoltano chiaramente i rumori delle forchette che tintinnano sui piatti. E pare che ci siamo messi tutti a cucinare. Ci siamo riparati dentro la nostra cucinina, al sicuro, e stiamo imparando nella quotidianità con la pratica da autodidatti, magari scovando qualche dettaglio nel cassetto dei ricordi o con l’aiuto della nonna o dell’amico bravo coi lievitati. Stiamo imparando a cucinare duro. Cucinare per davvero. Cucinare per necessità, due volte al giorno tutti i giorni: pranzo, cena, pranzo, cena. Lo facciamo con tenacia, da settimane, perché è un modo per impiegare il tempo, per risparmiare denaro senza dover dilapidare un patrimonio con i pasti consegnati a domicilio, per essere autosufficienti acquisendo consapevolezza che la cucina è una grande metafora di vita e ci insegna - tra le altre cose - ciò che è essenziale e ciò che non lo è.
Ci piace così, perché la cucina domestica, quella vera, è splendidamente imperfetta, goffa, imprecisa. Proprio come noi. È la cucina del provare e riprovare, degli sbagli (lo diceva Julia Child, la cucina è l’unico posto in cui ci si può mangiare i propri errori!), delle correzioni e anche delle invenzioni (manca un ingrediente? Fa lo stesso, verrà comunque bene). E’ la cucina del «fare senza» (non ho il lievito? Pazienza, provo con il bicarbonato!), del recupero - finalmente (questo avanzo è buono anche domani? Massì, non è poi così male) e del non spreco. È anche la cucina della tradizione e del sapere familiare, cultura quindi e tante storie da raccontare. Soprattutto è la cucina dell’autoindulgenza e Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno in questo momento. La cosa bella è che abbiamo, dopo i primi tentennamenti, abbattuto ogni remora e così ci mangiamo le nostre crostate bruttine, i nostri pani sgonfi e i biscotti un po’ bruciacchiati. E li condividiamo sui social e nelle chat perché il cibo, in ogni caso e in ogni circostanza, non può fare a meno di essere condiviso. 
E quindi proviamo, tutti, a creare, impastare, lievitare. Perché? Perché ci tiene vivi. 
Il mio compagno vive a Verona, quindi siamo stati separati tutto il tempo. Ma in realtà ci siamo visti più del solito perché non facciamo altro che videochiamarci per parlare, litigare, soprattutto mi sta tenendo aggiornata sui suoi progressi nella panificazione. Di punto in bianco, lui, un uomo di 45 anni, stimato manager dedito alla corsa più che alla casalinghitudine, trovandosi solo in casa, ha deciso di imparare a fare il pane. E, dal nulla, abbuffandosi di tutorial online e consigli miei (a mia volta mutuati da qualche amico fornaio), ha iniziato a panificare. E pare gli stia piacendo parecchio. 
A tutta questa morte occorre rispondere con della vita. E il pane è vita. Simbolo stesso dell’essere umano e del suo ingegno, oggi lo invochiamo come gesto e cibo di speranza e ribellione. L’Universo ha inizio dal pane, diceva Pitagora, e forse anche noi, quando usciremo da questa quarantena, inizieremo una nuova era - anche rispetto al rapporto che abbiamo con il cibo e con tutto il mondo che vi gira intorno. Avremo certamente imparato a fare gli gnocchi di patate e la pizza al pomodoro, avremo imparato a fare la spesa e ordinare la dispensa, magari anche a non sprecare. In fin dei conti avremo finalmente capito che la cucina è una questione di buon senso e creatività, semplicità e fantasia. Una cosa che possiamo fare tutti, proprio come stiamo facendo ora. Tra una tintarella domestica e un’abilità per i lievitati che non avevamo mai notato, torneremo a incontrarci con tante cose da raccontare. E io spero, a partire da me, che saremo più consapevoli e riconoscenti.
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