Faenza, la storia (più) vera (del solito) di Buffalo Bill nel libro di Bruno Fabbri

Romagna | 13 Dicembre 2020 Cultura
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Federico Savini
Di Buffalo Bill, più o meno fasulli, ne esistono tanti. Lo scrive Vittorio Bocchi nell’introduzione di Buffalo Bill di Romagna (Mnm edizioni), interessante operazione storico-narrativa del geologo faentino Bruno Fabbri, e i romagnoli lo sanno bene, dato che fra le varie attribuzioni dei natali dell’eroe della frontiera quella romagnola ha avuto storicamente maggior fortuna di altre (stimolando già in passato la fantasia dei romanzieri, vedi l’Eraldo Baldini di Stirpe selvaggia). Questo per una serie di ragioni che è facile spiegare, sia in virtù del «personaggio» Buffalo Bill (a conti fatti la prima «rock star» della storia umana), sia per come il suo mito sia stato utilizzato a fini propagandistici (tornò utile anche a un tizio decisamente poco americanofilo come Mussolini), ma in fin dei conti anche perché nella leggenda che indica nell’esule romagnolo Domenico Tambini - nativo di Santa Lucia di Faenza - la vera identità di Buffalo Bill, al secolo William F.Cody, almeno qualcosa di vero potrebbe esserci.
Ne è convinto Bruno Fabbri, tutt’altro che uno sprovveduto - beninteso - visto che ha sottotitolato il suo libro «Storia di Domenico Tambini e della sua misteriosa eredità» e che ha composto un’interessante operazione meta-narrativa, immaginando la vicenda di Domenico Tambini che, insieme al fratello Giuseppe, attraversò buona parte delle vicende più infuocate del tumultuoso Ottocento romagnolo (ottima scusa per indagare le pieghe più popolari della Storia con la S maiuscola che ha toccato anche la nostra terra), per poi trovare rifugio in degli Stati Uniti non meno turbolenti e lì conoscere Buffalo-Bill-quello-vero, del quale fu amico e consulente. Come Buffalo Bill anche Tambini fu maestro tanto negli affari quanto nella caccia (di orsi, anziché di bufali), per poi mettere insieme quell’agognata e cospicua eredità della quale per davvero si favoleggiò a lungo nella Romagna del primo ‘900.
Nel capitolo finale, Fabbri ricostruisce infatti con dovizia da ricercatore l’intricata vicenda dell’eredità di Tambini, in primis avocata dalla faentina Lucia Medri e poi sparita e forse ricomparsa e tramutata in una serie di poderi in quel di Pieve Cesato. Questo prima di che il neonato regime fascista si accorgesse - per tramite di fumetti, libri e film - del potenziale d’acchiappo popolare dell’eroe della frontiera, in pieno e postumo ritorno di fiamma dopo che già a suo tempo era approdato in Romagna con il suo Wild West Show, ai primordi del secolo breve. A quel punto, la presunta origine romagnola di un eroe tanto acclamato (che aveva giusto l’imperdonabile difettuccio di essere un tantino troppo americano…) diventa un’ottima scusa per fare diventare «italiano» l’eroe della prateria che castigava gli indiani d’America (proprio come Mussolini cercava un po’ maldestramente di fare in quegli stessi anni con gli «indiani d’Africa») e per di più Cody/Tambini, in quanto romagnolo, impreziosiva il pool genetico del Duce. Ma questo, come Bruno Fabbri ci insegna benissimo in questo appassionato romanzo con più di un pizzico di veridicità storica, non è che uno spunto per un altro capitolo della strana e feconda storia del Buffalo Bill di Romagna.
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