Faenza, la preside del Matteucci: «Alunni per il 40% stranieri ma fermarsi ai cognomi è riduttivo»
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Silvia Manzani
«Abbiamo un’alta percentuale di alunni stranieri, è vero. Ma quello che da fuori, spesso, non viene colto, è che molti di loro sono nati qua. Fermarsi al cognome è riduttivo. Abbiamo davanti, spesso, bambini che parlano benissimo l’italiano o che, comunque, sono già avanti nel loro percorso di integrazione». Nicoletta Paterni, dallo scorso anno scolastico, è la dirigente dell’Istituto comprensivo «Matteucci» di Faenza, dove gli studenti di origine straniera superano il 40%: «Le nazionalità più rappresentate sono Bangladesh, Pakistan, Albania, Romania e Marocco. La varietà interculturale, dunque, è molto ampia. Essendo che molte famiglie straniere, a Faenza, abitano in centro e che le iscrizioni funzionano con il criterio dello stradario, già da diversi anni il nostro è un istituto che accoglie bambini da tutto il mondo. Quello che cerchiamo di fare, in ogni caso, è mantenere un equilibrio: lavoriamo per evitare che gli alunni di altre nazionalità restino indietro ma non siamo nemmeno una scuola incentrata solo su di loro e sulle loro esigenze. Qui è ormai consolidato un concetto di inclusione a 360 gradi, per cui anche l’alunno molto volenteroso e motivato, quello che magari domani andrà al liceo, ha la possibilità di uscire da qui con la preparazione giusta». Grazie al sostegno e alle risorse messe in campo dal Comune, anche attraverso il Centro per le famiglie, si attivano laboratori e percorsi di mediazione per far recuperare, a chi è indietro con l’apprendimento dell’italiano, il gap linguistico: «Si tratta di un problema inevitabile, soprattutto per chi è arrivato da poco, ma che è nostro compito andare a colmare per iniziare una vera integrazione». Avendo un numero così alto di alunni con cittadinanza straniera, è scontato che al «Matteucci» si sfori, anche se in tutte le classi, il tetto del 30%: «Alcune classi sono in deroga, altre no. Ma i numeri poco importano quando si scopre che diversi bambini sono figli di famiglie stabilizzate da anni sul territorio, per non parlare di quelli nati in Italia. Chiaro, su di loro c’è lo stesso un lavoro specifico da fare, come capita nei casi in cui solo il padre lavori, la madre resti a casa e parli poco o male l’italiano, anche se è qui da anni». Una delle criticità che più volte emergono è la difficoltà a coinvolgere le famiglie in questione: «Noi ce la mettiamo tutta, per esempio interpellandole singolarmente i genitori se non leggono il registro elettronico. Ma è comunque faticoso avere partecipazione. Un problema che in realtà è più generalizzabile. Proprio sull’utilizzo del registro elettronico, quest’anno, ho preteso una formazione interna per i genitori. Alla primaria il riscontro è stato accettabile, alla secondaria di primo grado il corso è andato quasi deserto».