Faenza, «La parola papà» è il nuovo romanzo di Cristiano Cavina, tra la sperimentazione narrativa e i temi familiari

Romagna | 22 Gennaio 2022 Cultura
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Federico Savini
«Leggere un libro è diverso da guardare una serie tv, della quale seguiamo la storia perché vogliamo vedere come va a finire. Di fronte a un libro non è il finale il punto. Spesso non è neanche la storia, ma il “come” la raccontiamo a renderla interessante. Specie quando tocca temi che conosciamo bene». Cristiano Cavina affonda ancora una volta la penna nel tema della famiglia, ma lo fa alzando l’asticella della sperimentazione narrativa che lo contraddistingue, ormai anche da didatta (nei corsi ma anche sulla nostra rubrica «Dumas», vedi pagina 25). La parola papà è il suo nuovo romanzo, pubblicato per la prima volta da Bompiani, e tiene insieme le riflessioni della scrittore di Casola Valsenio sulla paternità (esercitata in prima persona ma anche vissuta come figlio) e quelle sulla scrittura. Il protagonista del libro si ritrova ad essere padre senza praticamente averne avuto uno, ma saranno i suoi figli - che lo chiamano ambiguamente «babba» - a spingerlo verso la soglia dove l’immaginazione incontra la realtà e dove ciascuno si assume la responsabilità di vivere la sua storia fino in fondo. «Chiaramente ci sono elementi autobiografici - spiega Cavina -, ma in fondo le storie, gira e rigira, sono sempre quelle. Quello che conta è come si raccontano, e poi si può sempre inventare...».
Che ci sia più vero o più falso, insomma, alla fine non conta…
«No, è la nostra vita stessa ad essere una finzione. In questo libro ho giocato molto sul labile confine che c’è tra il vero e il falso, allo scopo di distruggere le fondamenta del romanzo familiare. Raccontare cose reali le trasforme per forza in finzioni. E soprattutto mentre viviamo nel presente noi ricostruiamo di continuo il passato. Aggiustiamo i ricordi per adattarli a ciò che stiamo vivendo»
Quando hai avuto la consapevolezza che si vive riscrivendo di continuo la propria storia personale?
«Non lo so con precisione, ma credo di essere stato influenzato da Eduardo Galeano. Lui dice che la memoria non è un reperto in una teca, ma qualcosa che dobbiamo lucidare di continuo. Per lui fu soprattutto un riflessione di ordine politico, ma vale anche a livello personale. Quando hai vent’anni, vedi il te stesso bambino in un certo modo, magari senza risparmiargli niente. Poi, crescendo, finisci per guardarlo con sempre più dolcezza».
La parola «papà» va meritata sul campo? Nel libro i figli chiamano il protagonista «babba» e la cosa ha qualche contorno comico…
«Risvolti divertenti ce ne sono, pur nel quadro della ricerca di uno stile del tutto particolare. La riflessione sulla paternità non è a senso unico: il protagonista prova a capire come lo vedono i figli e si accorge che, per loro, lui è come se non avesse avuto un’adolescenza, come se non avesse mai fatto errori o non avesse pulsioni sessuali. Ci sono quindi parti del libro divertenti e tenere, ma anche altre dure, persino spietate».
Come hai sperimentato sul linguaggio?
«Ho cercato l’assoluta corrispondenza fra stile e tema. Volevo scrivere un libro scorrevole, ma anche complesso, per dare l’idea del presente che influisce sul passato; una cosa, quest’ultima, che la lingua italiana permette di fare efficacemente. Il filo conduttore del libro è il viaggio che il padre compie coi figli, ma da questo asse si dipanano tante narrazioni che portano a diverse rotture, credo, del codice del romanzo. Noi viviamo contemporaneamente nel presente, nel passato e nel futuro e il mio protagonista, non a caso, ha problemi relazionali importanti però è bravissimo a raccontare storie. Su carta lo vedi interpolare pensieri come “non glielo dirò mai” a frasi che sta dicendo al figlio, edulcorandogli certi passaggi per scelta. Ci sono spesso battute troncate perché il protagonista non le vuole ascoltare, anche se quelle frasi sono state pronunciate fino in fondo. C’è persino un rumore onomatopeico fuori dai confini della pagina e dal controllo che possiamo esercitare su ciò che ci circonda. Ed è proprio da quel rumore, all’interno di un carcere da cui emerge una lettera contenente una richiesta che manda in crisi il protagonista, che si mette in moto la vicenda».

Il previsto incontro in programma venerdì 21 gennaio, alle 18, presso la biblioteca Manfrediana per la presentazione dell’ultimo lavoro letterario di Cristiano Cavina, La parola papà è stato rinviato a data da destinarsi.
 
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