Faenza, la mediatrice culturale: «Questo mestiere non s'improvvisa»
Vive a Faenza da 32 anni Saadia Khaldoune, marocchina, mediatrice interculturale occasionale per diverse realtà, da RicercAzione a Sos Donna. Come emerge anche dalla nuova ricerca regionale sul tema, secondo la donna la figura del mediatore, nella mentalità comune, non è ancora abbastanza riconosciuta, anche se negli ambienti dell’accoglienza ai migranti è stata, negli anni, sempre più considerata importante e da valorizzare: «Ma una cosa sono gli addetti ai lavori, un’altra l’immaginario collettivo. Molti sono convinti che il mediatore sia un traduttore, nulla di tutto ciò. Il mediatore è una figura preparata su vari fronti, professionale e che conosce benissimo la cultura di provenienza della persona che sta aiutando». Saadia fa un esempio calzante: «Mia figlia, 27 anni, che è nata qui e parla il dialetto marocchino, otre ad avere ottimi rapporti con i familiari rimasti in Marocco, non sarebbe in grado di fare il mio lavoro. Questo ancora parziale riconoscimento, però, è ancora presente nelle normative e nelle differenze tra una regione e un’altra, tra il trattamento economico di una cooperativa e il compenso riconosciuto da un’altra. Mi piacerebbe che il profilo del mediatore fosse sempre di più considerato centrale nelle politiche di accoglienza dei migranti e di integrazione, anche da parte di chi non vi opera direttamente». Saadia ha iniziato con la mediazione nel 1997: «Per molti anni ho lavorato tantissimo, a tempo pieno. Poi, dopo la legge Salvini, anche la mediazione ha visto, purtroppo, un ridimensionamento. Io amo lavorare, in particolare, nei contesti socio-sanitari, perché sono luoghi dove le persone straniere, volenti e nolenti, devono andare e dove, quindi, l’uscita dall’isolamento è già iniziata. Penso alle cure, penso alle vaccinazioni. Ma penso, per esempio, anche al percorso nascita per le donne in gravidanza, dove devo dire non ho ma avvertito muri e conflitti particolari. Capita che una donna incinta preferisca un ginecologo maschio, questo sì. Ma mi sembra che capiti anche con le italiane, non ne ne ho mai fatto una questione culturale. Personalmente, del mio mestiere amo il fatto di riuscire a fare passare un messaggio, di favorire un incontro, di lavorare sulla relazione a tre. Di ostacoli particolari, davanti, non ne ho mai trovati. Certo, può succedere che una persona sia molto chiusa, o voglia tornare al proprio Paese, aspetti che non facilitano il dialogo. Ma quando, come mediatori, si è preparati e di esperienza, codificare è più semplice. L’immigrazione è un mondo complesso, il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo cambia altrettanto velocemente, basti pensare alle modifiche che, negli ultimi anni, ci sono state dallo Sprar al Sai, passando per il Siproimi. Io continuo a formarmi anche con l’Unhcr, perché c’è sempre da imparare». (s.manz.)