Faenza, il fotografo Isacco Emiliani: «Racconto la natura “attraverso” l’uomo»

Romagna | 06 Dicembre 2020 Cultura
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Federico Savini
«Se mi limitassi alle foto naturalistiche, non riuscire a sviluppare i progetti che ho in mente e ad analizzare la complessità dei legami fra uomo e natura. La terra in cui viviamo è quella di oggi e gli uomini ci sono. La sfida è fare in modo che lo stile di vita degli uomini sia del tutto compatibile con l’ambiente». Isacco Emiliani è un giovane fotografo faentino che non ha ancora compiuto trent’anni ma ha le idee particolarmente chiare non solo su quello che vuole fare (e sta già facendo) nella vita, ma anche su quali problemi sono destinati a diventare i più fondamentali per l’intera razza umana nei prossimi anni (e in realtà, anche lì, lo sono già da parecchio). Comparso recentemente nel programma televisivo Geo con i suoi spettacolari video sull’aurora boreale, Isacco è qualcosa di più di un fotografo naturalista, perché di fatto fa anche reportage al confine del giornalismo e perché del mondo artico vuole indagare ogni cosa, compresi i territori popolati e antropizzati, poi raccontati dalle fanzine che documentano i suoi reportage, sono uscite negli ultimi quattro anni e sono dedicate a Finlandia, Norvegia e Alaska, con il volume sulle isole Svarbald appena pubblicato e disponibile sul suo sito web.
Ed è un percorso, quello di Isacco Emiliani, nel quale lavoro e passione si intrecciano con una coerenza e lucidità d’intenti che merita la sottolineatura e l’abbrivio fin dalle tappe scolastiche.
«Ho studiato grafica pubblicitaria all’istituto Persolino-Strocchi – racconta Isacco -. Lì mi sono appassionato alle materie grafiche in particolare e attraverso un progetto scolastico ho scoperto per davvero la fotografia. Raccontai la campagna e la collina faentina con un taglio ambientale che poi ho mantenuto».
Dopo le superiori?
«Ho fatto master in reportage e fotogiornalismo che mi hanno fatto incontrare docenti come Chris Burkard, Sarah Leen, Marco Pinna e Arianna Catania. Diciamo che la formazione tecnico-professionale è stata quella».
Poi è arrivato il lavoro vero e proprio, principalmente per l’azienda russiana EuroCompany, ma si direbbe che l’ambito del lavoro e quello della passione in qualche modo coincidano, o quasi. E’ così?
«Negli ultimi due anni è praticamente così in effetti, ma all’EuroCompany entrai 9 anni fa da operaio. Poi ho approfittato dei miei studi sulla grafica per collaborare con l’ufficio marketing e negli ultimi anni mi sto occupando soprattutto di foto e video, tra l’altro realizzando materiali che pongono grande attenzione al tema della sostenibilità ambientale, reportage sulla filiera produttiva che hanno molto in comune con Artic Visions».
«Artic Visions» è appunto il tuo progetto di reportage fotografici dalle regioni artiche…
«Nasce grossomodo cinque anni fa e per sostenerlo, visto che parliamo di viaggi di almeno tre settimane ogni volta, realizzo e pubblico fanzine e stampe per potermi almeno in parte finanziare questa passione. Tutto nacque da un viaggio di piacere in Islanda. Lì compresi che vivere in quella terra era una sfida, ma anche la sopravvivenza di quella natura nel mondo di oggi era in discussione. Il tutto naturalmente arricchito dalla bellezza folgorante di quei paesaggi. Il successivo viaggio in Finlandia è stato davvero finalizzato ad avviare “Artic Visions”, il cui obiettivo è quello di raccontare, non solo con le foto, tutte le regioni artiche. Per l’editing di alcune fanzine mi ha dato una mano Alex Liverani ma sostanzialmente le autoproduco. Sta per uscire il quarto volume sulle Svarbald, il luogo più a nord che sia mai stato abitato dagli uomini e con un insediamento recente e a tutti gli effetti internazionale. Sono stato lì con Riccardo Astolfi, che si occupa di cibo sostenibile e in loco abbiamo conosciuto un ricercatore americano che produce cibo in serra a una latitudine pazzesca, quindi in questo caso la dimensione umana era predominante anche su quella naturalistica».
L’interesse per l’antropizzazione infatti tri distingue dai fotografi naturalisti…
«Documentare solo la natura sarebbe limitante per quello che ho in mente. I lavori su Finlandia e Norvegia erano certamente più naturalistici rispetto all’Alaska, dove la sfida tra uomo e natura comincia ad avere peso, e nelle Sbarvald questo aspetto è ancora più importante».
Quanti volumi vorresti realizzare?
«Inizialmente avevo in mente i Paesi artici, che sono otto. Poi però, documentandomi, ho scoperto che esistono regioni di particolare interesse, che meriterebbero un capitolo a sé, ed è anche il caso delle Svarbald. Mi interessano le “storie legate alla natura” più che la natura pura e semplice, anche perché è il suo futuro ad essere in gioco. Per fare un esempio, esiste una specifica area della Russia nella quale in questi anni vengono rinvenuti numerosi scheletri di Mammut. Sono ritovamenti che raccontano una storia, fanno immaginare un passato particolare, meritevole di un’indagine apposita. Tenendo conto di questo, i volumi di “Artic Visions” potrebbero di poco superare la decina».
Per le foto e i video che realizzi, quanto conta la tecnologia e quanto conta la ricerca di luoghi e periodo appropriati?
«Il viaggio in Alaska è stato pianificato per un anno, quindi aveva alle spalle un grande lavoro preventivo e devo dire che alla fine il risultato rispecchia molto le previsioni che avevo in mente. La ricerca e la parte progettuale sono quindi le cose più importanti ma non sottostimerei il ruolo dell’attrezzatura. Quando sei in loco devi ottimizzare il tempo a disposizione, e avere una tecnologia potente e affidabile aiuta molto in questo senso».
Hai frequentato luoghi tra i più scarsamente popolati al mondo. Hai mantenuto contatti? Sono popolazioni mediamente rimaste fuori dalla pandemia?
«I rapporti cerco di mantenerli con tutti quelli che conosco. E’ uno dei piaceri legati a questo progetto. Poi non tutti le persone che conosco rimangono lì per sempre, e questo particolarmente vero se parliamo dei ricercatori delle Sbarvald. Sulla pandemia posso dirti che i nativi dell’Alaska con cui sono in contatto non hanno avuto scossoni: un aereo gli invia dei viveri ogni cinque giorni e parliamo di voli che ospitano al massimo sette persone. I rischi sono, insomma, ridottissimi».
Il filo rosso del tuo lavoro è la sostenibilità ambientale. Attraverso quali leve pensi si potrà arrivare a una sensibilità collettiva che sappia mettere in conto delle rinunce in nome dell’ambiente?
«Credo che molto dipenda dalle scelte individuali, che possono venire in qualche modo indirizzate e sostenute dai governi, anche se sappiamo che non esiste, fra i politici del pianeta, un’unità di vedute e di intenti sul tema ambientale. Premesso questo, la faccenda è complicata e va guardata da tutti i punti di vista. Io ad esempio non nascondo il fatto che alcuni abitanti dell’Alaska che ho conosciuto fossero favorevoli a Trump perché, con le trivellazioni, a loro sono arrivate sovvenzioni mai viste prima. E’ un baratto pesante, al quale naturalmente tanti sono anche contrari, però pensare di vivere oggi senza scuole ed ospedali non è certo una gran prospettiva… Per riuscire a mantenere un buon tenore di vita senza guastare l’ambiente né tradire l’identità e la cultura dei popoli credo vada sostenuto chi lega il profitto, che resta necessario, alla sostenibilità. E’ un tema che ho approfondito collaborando con Oasi Dynamo, una società agricola che gestisce e conserva la biodiversità dell’oasi Wwf di Limestre, e penso che la strada per il futuro sia quella di fare attenzione e sostenere di lavora in un’ottica compatibile con la natura. Il singolo individuo può fare molto con le sue scelte».
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