Faenza, i racconti su olivi, carrubi, querce e fichi di Monica Zauli
Sandro Bassi
Questo libro, almeno inizialmente, non doveva essere un libro. Doveva solo essere un insieme di racconti per distrarre una persona. Come Le Mille e una Notte allora? Beh, non proprio: la persona da intrattenere non doveva esser distratta in senso truffaldino come fa la bella Sherazade con il perfido sultano, ma in senso consolatorio e curativo: Annalisa stava combattendo una battaglia molto dura contro un tumore e Monica sapeva che l’amica amava le piante di un amore profondo, ancestrale, viscerale. Non solo: Monica era solita trascorrere le estati in quella terra selvaggia e meravigliosa che è il Salento, dove gli olivi millenari sopravvissuti alla Xylella convivono con le querce vallonee portate dai Saraceni, con i carrubi che creano le oasi d’ombra nelle più roventi estati e con i fichi più buoni e più dolci del mondo. E allora, spinta da comuni amici, alla fine Monica si è decisa a dare alle stampe questa antologia di «racconti per stare meglio», dedicandoli alla memoria di Annalisa che non c’è più ma che c’è ancora nello spirito e nelle intenzioni di queste pagine.
Nasce così «Della stessa Natura. Storie di uomini e di piante» di Monica Zauli (192 pagg., con disegni dell’autrice e fotografie di Diego Drudi, Carta Bianca ed., Faenza 2021, 18 euro) che raccoglie ben ventidue storie di alberi, agrumeti, cicorie, rovi di mora, pergolati e boschi.
E come fanno boschi, o alberi, o limoni ad esser curativi? Nessuno lo sa o lo può spiegare, ma tutti sappiamo che i boschi sono sede dei nostri sogni e delle nostre paure infantili, del nostro stupore e della nostra gioia. La foresta è il luogo ove recarci per ritemprare lo spirito, per meditare e per contemplare, come facevano gli anacoreti medievali ma come dovremmo tornare a fare anche noi uomini vittime del consumismo e della moderna frenesia.
Esemplificativa dell’intero volume è la storia della «quercia vallonea di Emiliano», un «albero a dir poco speciale - dice e scrive Monica -, originario dei monti dell’Albania, della Grecia e della Turchia, molto raro in Italia e che possiamo trovare solo nel basso Salento in aree limitate: il tronco è dritto, coperto da una corteccia bruna e rugosa come pelle di elefante, ramificato già a poca distanza da terra in grossi rami possenti e tortuosi che si allargano paralleli al suolo creando una canopia degna della più antica foresta primigenia».
Questa quercia è presente con pochi, annosi esemplari a Tricase, a Lecce e a Galatina ed è in quest’ultima località che si svolge il racconto di Monica relativo al vero e proprio salvataggio del patriarca arboreo il quale doveva soccombere alla costruzione di una nuova strada prevista nel piano urbanistico comunale. Il proprietario, Emiliano Larini, riuscì a scongiurare lo scempio mobilitando associazioni ambientaliste e semplici amanti del territorio, contadini e cittadini, facendo infine vincolare la quercia e assicurandole un futuro protetto.