Faenza, Gianni Parmiani ai Lõn ad mêrz: «Il dialetto, la mia lingua del cuore»

Romagna | 12 Marzo 2023 Cultura
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Federico Savini
«Anche quando si scrive e si recita usando l’italiano, in qualche modo il dialetto “c’è”, e la battuta nel momento in cui riaffiora esce in dialetto, una lingua molto “gestuale”. Ecco, una cosa bella del dialetto romagnolo è che di solito il gesto arriva prima del pensiero. È una considerazione che rimanda alle ricerche sulla “lingua madre” di Elisabeth Jankowski, una linguasta tedesca che insegna a Verona e spiega bene quale sia la ricchezza insita in ogni lingua. Una cosa a cui tengo particolarmente è proprio evitare il campanilismo sterile, che è facile alla degenerazione. Assistere a certe diatribe tra la lingua della Romagna orientale e quella occidentale mi fa un brutto effetto. Penso che chi ama la sua lingua non debba rivendicarne l’esclusiva, ma condividerne la ricchezza». Gianni Parmiani non è, semplicemente, «uno che fa ridere» (e hai voglia se fa ridere), basterebbero queste parole a dimostrarlo. Attore, cultore del dialetto, doppiatore di reali in esilaranti crisi d’identità, presenza benedetta sui social network e decisamente (seppur molto a modo suo) anche «autore» a tutto tondo, si è ritrovato ad essere un riferimento per la lingua e il teatro romagnolo in questi anni disordinati, conquistando di recente anche una visibilità «social» che lascia lui per primo incredulo, anche perché c’è riuscito senza minimamente assecondare i diktat della comunicazione virale e dei clip agghindati di oggi («Sono un boomer per davvero!» rivendica), grazie alle sue straordinarie «interpretazioni» doppiate di re Carlo d’Inghilterra, che mietono consensi su Facebook.
Ma forse uno dei modi migliori per capire chi sia davvero Gianni Parmiani sarà andarlo a vedere dal vivo, lunedì 13 marzo alle 21 al teatro dei Filodrammatici di Faenza, dove in completa solitudine sarà protagonista del secondo «Lõn ad mêrz» organizzato da Istituto Schürr e Filodrammatica Berton, con il recital «A tirumbëla, mè», definito da lui stesso «un piccolo viaggio divertente  e ironico, ma anche - spero - emozionante e poetico, in compagnia del dialetto; un’escursione nei sonetti, nei racconti e in altri incidenti che ho scritto nel corso degli anni».
«Si tratta a tutti gli effetti di un recital, con la proiezione di qualche video - racconta Parmiani -, che ho già portato a Palazzo Vecchio a Bagnacavallo, anche con due musicisti che purtroppo non potranno essere a Faenza».
«A tirumbëla, mè»… Intanto cosa vuol dire?
«“A più non posso”, l’ho sempre sentito usare da bambino, a Bagnacavallo, anche per l’acqua a catinelle. È un’espressione che nell’area faentina credo sia diversa, visto che il Morri la riporta come “Tirundela”, mentre l’Ercolani la lascia proprio fuori dal vocabolario. Credo abbia un’etimologia complicata. È un modo di affermare la mia natura di attore-autore, nato cun e’ dialét dacânt. E il dialetto è la mia lingua del cuore».
Lo possiamo considerare uno spettacolo repertoriale?
«Beh, tecnicamente lo è, anche se ne approfitto per leggere cose che non ho mai fatto in pubblico. Tra queste anche dei racconti che pubblicai proprio su Settesere. L’idea è sempre quella di condividere la bellezza di una lingua che vive ancora oggi. Devo dire che il lascito poetico di Giovanni Nadiani è prezioso anche per la capacità di confrontare la lingua dei nostri vecchi col presente e con altre parlare, vedi il contrasto col napoletano nel suo lavoro sul broker fallito. Mi piace lavorare su questa linea».
Da attore che da sempre recita in dialetto, sei quasi costretto a porti il problema dei luoghi comuni sul romagnolo…
«Sì, non amo i campanilismi sfrenati, non ci servono. Mi piace invece indagare come il nostro dialetto sia diventato una lingua poetica, tema sul quale ad esempio cent’anni fa Beltramelli polemizzò con Spallicci, definendo il romagnolo una lingua “asprissima, rude, saltellante, monca e irsuta”, adatta tutt’al più al comando e alla bestemmia. Io cerco sempre di usarla in modo diverso ma capisco queste posizioni. Del resto, l’800 romagnolo non ha avuto un Giuseppe Belli o un Carlo Porta, e non parliamo di Giuseppe Basile per il napoletano già nel ‘600. Nello spettacolo dico che il romagnolo non ha fatto tutta questa carriera e provo a immaginare cosa sarebbe accaduto se Dante fosse nato qui, invece di morirci».
Forse Guerrini è stato, tra i dialettali romagnoli, il primo a dar prova di padroneggiare sia l’alto che il basso.
«Sì, però quasi tutti lo conoscono per gli aspetti più sboccacciati, glielo rimproverava anche Carducci. Comunque anche le battute di Guerrini sono inserite in un metro poetico e si percepisce la struttura “alta” che c’è dietro. Io stesso ho dei sonetti basati su modi di dire romagnoli che non sono certo signorili, come quelli raccolti da Umberto Foschi, ma ci tengo a non farli suonare mai volgari. Quanto poi al successo, beh, quello ha dinamiche tutte sue. Nel mio piccolo posso dire che la visibilità che mi hanno dato i video doppiati di re Carlo non l’ho avuta in più di 50 anni di teatro…»
I riscontri di quei video credo abbiano sorpreso anche te, no?
«Sono andati assolutamente oltre le aspettative. Sono nati in modo molto naturale: quando ho visto il motto d’ira di re Carlo per liberare il tavolo quando doveva firmare, beh… c’è poco da fare: ho visto mio nonno, a tavola con mia nonna, che si lamentava perché la tavola era piena di ‘rozzi’ e non si riusciva a mangiare. O a firmare, come nel caso di Carlo…».
L’impressione, comunque, è che i video di re Carlo stiano portando il dialetto in case nelle quali non lo si parlava più.
«Sembra proprio così, e mi colpisce molto quando chi mi ferma per farmi i complimenti mi dice cose tipo “mio figlio di 16 anni non se ne perde uno!”. Devo dire che alcuni video hanno sollevato curiosità in molte persone, vedi quello della birra in cui si parla della “puitla” (malattia dei polli, molto nota nel mondo contadino, nda) o ancora di più quello in cui Carlo dimentica la dodicesima notte e racconta della Pasquetta, con gli animali parlanti. Ora, non dico che sia questo l’obiettivo di video che davvero faccio sul divano, con una app, per divertirmi, però forse attraverso le risate arrivano elementi “culturali” a più persone rispetto a quante ne coinvolgano operazioni più mirate. So che la mia poesia di Natale è stata fatta girare in qualche scuola, so che qualcuno usa i video di re Carlo per combattere la depressione e poi vado fortissimo coi preti, sono tutti miei fan! Dal lato dei colleghi, invece, mi hanno fatto piacere gli apprezzamenti tecnici; soprattutto chi ha colto quanta improvvisazione ci sia. Pino Caruso diceva che per uno spettacolo occorre qualche settimana, ma per imparare a improvvisare ci vuole una vita di lavoro. È la panna montata sulla torta, ma la torta è appunto il mestiere e lo studio che regge quello che sta sopra».
Ai Filodrammatici reciterai cose tue, magari già viste sui social. Però balza all’occhio che non esista una raccolta scritta, sistematica, dei lavori di Gianni Parmiani…
«Vecchia storia, me l’hanno detto in tanti che dovrei pubblicare qualcosa. Che dire, sono un pessimo archivista di me stesso e forse mi manca la forma mentis dell’editor. In realtà sono esigente, anche un po’ insicuro, non saprei scegliere cosa lasciar fuori, preferirei fidarmi di qualcuno di cui ho stima per questo. Comunque una cartella nel mio computer ce l’ho…».
Reciti da più di cinquant’anni, ma da quanto ti puoi considerare un autore?
«Col teatro sono partito a 8 anni. Nel ’68 con la Cdt La Rumagnola lo spettacolo Cla bela famiulena vedeva in scena mio nonno Mario, il capo della compagnia, con mio padre, mio zio, mio fratello Paolo ed io. Ho sempre amato anche scrivere, da ragazzo mi dividevo tra il giornalino della casa del popolo e quello della parrocchia. E confesso che preferivo scrivere per don Vittorio, anche se sono sempre stato di sinistra, perché con lui c’erano meno verifiche e più libertà. Tra l’altro ho ritrovato dei sonetti che al liceo dedicavo ai miei professori, ma temo che non siano pubblicabili…».
Hai una «politica» su social?
«Più che una politica diciamo che cerco di non rompere le scatole e di non strafare con la promozione. Non “taggo” mai nessuno, per intenderci. Non uso i social network come un call center, se a qualcuno piacciono le mie cose mi verrà a cercare. Quanto ai video su Carlo, un giovane tecnico di scena del teatro delle Albe si stupì della facilità con cui li faccio, riprendendo la tv col cellulare e poi montando il tutto con una app. C’è chi mi dice che dovrei metterli su YouTube o TikTok, dove sarebbero anche monetizzabili. Ma, insomma, non è per quello che li faccio, e non vorrei diventasse un lavoro».
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