Faenza, Denis Campitelli omaggia Giovanni Nadiani e Guido Leotta alla Casa del Teatro

Romagna | 23 Luglio 2021 Cultura
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Federico Savini
«Giovanni Nadiani negli ultimi anni diceva di non riconoscere più la terra in cui era cresciuto, di non sentirsi più parte del paesaggio. L’unico paesaggio che ha riconosciuto fino alla fine era la lingua, il dialetto». Denis Campitelli ha preparato Fat Jazz, lo spettacolo che porterà in scena venerdì 23 alle 21.30 alla Casa del Teatro di via Oberdan a Faenza, traendolo interamente da testi di Giovanni Nadiani. È l’attore cesenater recentemente visto anche sul grande schermo in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti il protagonista dell’edizione 2021 di «Tratti nel cuore», la serata dedicata a Guido Leotta e Giovanni Nadiani che la Bottega Bertaccini quest’anno ha organizzato insieme al Teatro Due Mondi, inserendola nel programma estivo della Casa del Teatro.
«Faccio spettacoli imperniati sul dialetto dal 2009 - spiega Denis Campitelli -, ma fisicamente mi sono imbattuto in Giovanni Nadiani solo nel 2015, quando lui venne a vedermi proprio alla Casa del Teatro. Mi disse che secondo lui potevamo sviluppare qualcosa insieme».
Lo credo bene. Ma poi come andò?
«Andò che di fatto la cosa non riuscimmo a concretizzarla in breve, poi ho saputo della malattia di Giovanni e della sua scomparsa. A quel punto, insieme ai ragazzi dei Due Mondi, abbiamo pensato a come omaggiarlo. Così, ho letto tutto quello che ho trovato nella biblioteca della Casa del Teatro e l’ho in un certo senso miscelato al jazz, anche perché in passato vidi Nadiani insieme ai Faxtet, ed era un bell’animale da palco!».
Uno spettacolo intero con testi suoi, però, non l’avevi mai fatto.
«No, un intero spettacolo, ma ho inserito le sue poesie nelle mie letture, constatando che nell’area del cesenate è molto poco conosciuto. Direi in modo inversamente proporzionale alla curiosità che suscita nel pubblico. Era quindi doveroso dedicargli un intero spettacolo. Per farlo mi sono permesso di accorciare alcuni suoi testi davvero troppo lunghi per la scena, come Formica, sotto la supervisione di Renzo Bertaccini e Giuseppe Bellosi. Sono insomma intervenuto a livello drammaturgico, e in Fat Jazz sarò in scena con due leggii e un tavolino, proprio di formica! A destra ci saranno le riflessioni di Nadiani sulla Romagna, che è piena di ferite e di non-luoghi. Di riconoscibile resta il dialetto, che però – ecco il leggio a sinistra - è ultra-contaminato e si presta a poesie ironiche, che sottolineato la discrepanza fra la mentalità romagnola e la tecnologia, con i tipici epigrammi finali delle poesie dialettali che ribaltano le aspettative e le rendono così divertenti. Sedendo al tavolino invece farò l’attore al 100%, con testi a memoria e personaggi tratti dagli scritti di Giovanni, come quello del romagnolo che si interroga sull’Irish Pub e ciò che han perso gli irlandesi in questa strana conquista del mondo attraverso la birra e i balli celtici, che rischiano di soppiantare quelli romagnoli…».
Nadiani ha sempre documentato l’evoluzione del dialetto, ma pensi ci sia un limite? Esiste un livello di globalizzazione della lingua dopo il quale si perderà di vista del tutto la Romagna anche dal dialetto?
«Senz’altro il romagnolo, come ogni lingua, continuerà a trasformarsi, e una scorsa al vocabolario del Morri fa capire al volo che un buon 50% di quelle parole non le usano più neanche gli anziani. La generazione che ragiona ancora in dialetto è destinata a estinguersi. Usiamo poi sempre più termini burocratici e tecnologici. E quelli non hanno geografia. Credo invece che il dialetto resisterà nell’arte. I poeti dialettali aumentano, ho visto tante nuove voci in questi anni. Se poi si tratti di un buon segnale o di un interesse morboso per l’animale moribondo immagino lo scopriremo tra non molto».
Nello spettacolo ti richiami al jazz, che anche Nadiani suonava, ma le nuove generazioni portano avanti una sperimentazione linguistica, che molti trovano involutiva, nella musica rap, con un linguaggio macerato spesso incomprensibile a chi ha più di 25 anni. La ascolti?
«Per un fatto anagrafico sono un amante del rock, ma quello che dici è vero, qualche punto di contatto con una sperimentazione linguistica che mi è cara lo vedo nel rap. C’è alla base un ritmo sincopato che porta a mangiarsi le parole. È una musica che peraltro un po’ ho approfondito proprio per affrontare i rappèt di Giovanni Nadiani. Non posso dire di aver penetrato le liriche del rap, ma il modo di far cadere le parole sul groove mi interessa. E non è una cosa banale».
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