Faenza, Angelo Emiliani racconta in un libro la storia del Pci in città dal 1919 alla Liberazione

Romagna | 23 Aprile 2022 Cultura
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Federico Savini
«Spero di non peccare di presunzione affermando che questa è la prima ricerca ad aver ricostruito, con pretese esaustive, le vicende dei comunisti faentini negli anni del fascismo e della guerra. La difficoltà maggiore l’ho incontrata nel reperimento delle fonti; del resto, un partito costretto ad agire nella clandestinità lascia poche tracce documentali. È stato quindi necessario ricorrere alle poche testimonianze dei protagonisti e, soprattutto, scavare a lungo negli archivi. Mi sono attenuto a due criteri di fondo: collocare quelle vicende nel contesto più ampio per fornire riferimenti senza i quali sarebbe difficile comprendere e documentare rigorosamente ogni affermazione. Non a caso in poco più di trecento pagine si contano 567 note». Alle 18 di sabato 23 aprile, al Museo del Risorgimento di Faenza, Angelo Emiliani presenterà al pubblico il suo volume Storia del Pci di Faenza 1919-1944, appena pubblicato dall’editore Polaris e primo di una serie di tre libri che racconteranno l’intera storia locale del partito. Dopo il saggio di Emiliani, a cadenza annuale, arriveranno quello di Franco Conti sugli anni della ricostruzione e infine quello di Gabriele Albonetti per il periodo dal 1956 («fatti di Ungheria») al congresso di Rimini del 1991, che ha segnato la dissoluzione del Pci.
Nel libro si afferma che il fattore dal quale è doveroso partire è il peculiare assetto produttivo e sociale di Faenza.
«Negli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900 Faenza, a differenza delle città vicine, ha perso il treno dello sviluppo industriale. Non è accaduto per caso, ma a seguito di scelte politiche. Mancando un robusto ceto operaio, il panorama sociale dei primi decenni del secolo scorso risulta frammentato, con il blocco di gran lunga più numeroso rappresentato dai quasi ottomila mezzadri. Questo ovviamente ha pesato sulla possibilità, da parte dei partiti che si richiamavano agli interessi dei lavoratori, di assumere consistenza di massa».
La storia parte dalle agitazioni del primo dopoguerra. Come mai?
«Alla base delle manifestazioni di piazza e degli scioperi avvenuti a Faenza come in gran parte d’Italia c’erano la disoccupazione e l’aumento del costo dei generi di prima necessità. In un clima di forti tensioni sociali e politiche, le organizzazioni della sinistra non seppero porsi alla guida della protesta e darle una strategia. La domanda di rappresentanza finì per orientarsi verso nuovi soggetti: popolari, fascisti e comunisti».
Come mai il primo Pci faentino guardava più a Forlì che a Ravenna?
«Il primo nucleo di comunisti faentini era suggestionato dalle idee intransigenti di Amadeo Bordiga e nel forlivese, ancor prima della nascita del partito, la frazione comunista aveva conquistato un peso significativo all’interno del partito socialista. A Ravenna, invece, era grande il prestigio dei riformisti di Nullo Baldini, l’ala moderata del socialismo. La sezione faentina del Partito comunista d’Italia è nata la sera del 31 gennaio 1921».
Nel libro si afferma che il fascismo non è mai diventato forza egemone perché non è riuscito a conquistare il consenso delle campagne.
«Le famiglie mezzadrili costituivano il bacino più consistente del voto al partito popolare. In ciò pesava il fattore religioso, ma anche la solida rete di circoli, cooperative e casse rurali costruita con un lavoro assiduo e diffuso. L’opposizione al fascismo nelle campagne ha più motivazioni: gli scontri del 1914 fra interventisti e no, il rifiuto dei metodi violenti dello squadrismo, la paura del nuovo, di un sovvertimento dei vecchi equilibri. Il punto di svolta sul piano politico è rappresentato dal rinnovo del patto di mezzadria nel 1923: segna un deciso arretramento rispetto a quello stipulato tre anni prima, limita la libertà delle famiglie. I mezzadri, quelli giovani soprattutto, capiscono che con il fascismo gli agrari sono più forti e impongono le loro condizioni. Lo scontro a fuoco sull’aia dei Caroli di S. Barnaba, i Spigón, avviene proprio in questo contesto».
Figure di particolare rilievo?
«Quello di Aldo Celli è il primo nome da fare. E’ stata la figura di maggior spessore già alla nascita del partito a Faenza, per la coerenza con le sue idee ha scontato undici anni di confino e carcere. Fra i promotori della prima formazione partigiana in Romagna, è stato catturato ed è morto a Verona, fucilato dopo indicibili sevizie. La sua morte ha privato il dopoguerra faentino di una guida saggia. Cosa che si può dire anche di Achille Pantoli: sei anni fra galera e confino, vittima di una bestiale aggressione fascista nell’ottobre del ’39 che lo ha reso invalido. Poi Quinto Bartoli, uomo coriaceo, indomabile, che appena uscito dal carcere riprendeva il lavoro politico. Dopo la liberazione è stato nominato dal Cln segretario della Camera del lavoro».
Episodi e personaggi controversi?
«Ce ne sono stati e li riporto puntualmente. D’altra parte questa è una storia di uomini e di donne, coi loro slanci, i loro sacrifici e le loro debolezze. Un caso: Pietro Ferucci, arrestato nell’autunno del ’33, non regge alle percosse e fa i nomi di dirigenti e militanti. Poi, resosi conto di aver compromesso tanti compagni, tenta il suicidio. Lo condannano a cinque anni di confino e viene espulso dal partito come traditore. La disciplina in clandestinità è un’esigenza necessaria e implacabile. Oggi può risultare incomprensibile, ma essa ha costituito la condizione per non essere travolti, per tenere accesa la speranza di abbattere il regime e costruire una società libera e giusta».
Qual è stato il contributo dei comunisti faentini alla Resistenza?
«Proprio per aver mantenuto in vita una rete organizzativa e i collegamenti, dopo l’8 settembre del ’43 sono stati i comunisti a promuovere la lotta armata contro fascisti e tedeschi. Scelta non facile: altre forze politiche erano rappresentate da singole persone, stimate ma senza grande seguito. Fino all’agosto del ’44 i cattolici si sono attestati su una linea non violenta e attendista. Una grande formazione partigiana costituita da faentini avrebbe dovuto essere il Battaglione “Ravenna”, voluto da Boldrini con un carattere unitario. L’uccisione di Bruno Neri e Vittorio Bellenghi a Gamogna ne ha impedito l’entrata in azione e tanti partigiani faentini si sono aggregati alla 36ª Brigata Garibaldi, al gruppo di Corbari, oppure hanno costituito le Sap, le Squadre di azione patriottica, nelle nostre campagne. Il loro apporto alla lotta di liberazione non è stato da meno rispetto a quello espresso dalla Resistenza in altre zone».
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