Fabio Zaffagnini tra il lungo fermo dei Rockin’1000, le speranze per il live di Parigi e il ricordo di Raoul Casadei

Romagna | 25 Aprile 2021 Cultura
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Federico Savini
«Ho visto, di recente, anche iniziative musicali in streaming di notevole qualità. Ben venga che la musica abbia anche questo canale! Però resta una cosa non paragonabile a un concerto dal vivo. Lo schermo coinvolge infatti solo vista e udito, i film stessi sono pensati per valorizzare al massimo quei due sensi. Invece un concerto ti avvolge, stimola tutti e cinque i sensi, oltre al movimento. Insomma, è proprio un altro genere di esperienza». Un anno di assenza dai palchi è lungo anche per uno come Fabio Zaffagnini, che tecnicamente non è un musicista ma a modo suo è decisamente una rockstar, in quanto ideatore, organizzatore e bene o male anche «frontman» dei Rockin’1000, la più grande band del pianeta, sulle cui sorti la pandemia ha naturalmente impattato eccome. Nei prossimi giorni, quelli nei quali con sempre maggiore insistenza si sta tornando a parlare di «riaperture», si dovrà decidere in via definitiva se il programmato concerto dei Rockin’1000 al Stade de France si Parigi, previsto per sabato 17 luglio, si potrà fare oppure no. «Come ho già detto con una diretta streaming su Facebook - spiega Fabio -, il concerto è assolutamente in forse, tanto più che lo stadio è stato scelto come hot-spot vaccinale dal governo francese. Un concerto dei Rockin’1000 è però una macchina organizzativa complessa e nel giro di non troppo tempo dovremo avere delle certezze nel merito. Non ci sono dubbi sul fatto che la salute e la sicurezza vengano prima».
Cosa ti senti di dire, al momento, da una parte a chi volesse entrare nell’orchestra dei mille e dall’altra a chi non volesse perdersi il concerto?
«Per il concerto e tutte le novità la cosa da fare è semplicemente seguire i nostri canali social, dove puntualmente si viene informati di ogni cosa. Invece per chi avesse voglia di entrare nell’orchestra ribadisco che le candidature sono sempre aperte, tutto l’anno, ma in effetti questo è un ottimo momento per proporsi. Non essendoci nuovi eventi in cantiere si può essere selezionati e inseriti in organico con una certa facilità, mentre facendolo quando vengono annunciati i concerti poi le adesioni si esauriscono sempre in pochi minuti. Il momento, insomma, è propizio».
Ipotizziamo che il concerto di Parigi si possa fare ma con restrizioni. Il problema di distanziare i mille sul campo di uno stadio sarebbe affrontabile? Fino a che punto sarebbe possibile limitare gli ingressi per avere comunque una sostenibilità economica?
«Il distanziamento dei musicisti è senz’altro possibile, dopo tutto parliamo di un campo intero. La sola cosa su cui dovremmo intervenire riguarda i cantanti, che basilarmente nel caso dei Rockin’1000 cantano in coro, in 3 o 4 per microfono. Se il concerto si farà provvederemo a fargli avere un microfono a testa. La ricaduta sarebbe quindi in termini di costi e questo ci porta alla seconda domanda. Non posso risponderti in assoluto, ma è chiaro che il numero di posti disponibili è una variabile chiave per la sostenibilità dell’evento. In certi casi, abbiamo organizzato concerti per i quali si arrivava al pareggio con solo 10mila spettatori, mentre altre volte ne servivano almeno 30mila. Gli eventi hanno tante variabili, che vanno dalla struttura dello stadio ai suoi costi di gestione, dal personale a eventuali maxischermi, fino alle luci, alla sicurezza e così via…».
E’ stimabile la portata economica di un evento simile, anche in termini di ricadute sul turismo?
«È difficile quantificare con precisione. Lo dico confortato dal fatto che l’Università di Bologna ci sta studiando proprio sotto questo aspetto. I Rockin’1000 sono un caso di studio universitario, in particolare il calcolo dell’indotto che possiamo generare. Posso dire che in città che hanno normalmente grandi flussi turistici, come Milano o Parigi, un nostro concerto impatta relativamente, mentre a Cesena o Courmayeur abbiamo riempito tutte le strutture ricettiva del territorio. Limitandoci ai musicisti, va ricordato che loro pernottano e consumano per una settimana, portandosi magari dietro partner e amici. Tutto va moltiplicato per mille quando ci siamo di mezzo noi. In quanto al pubblico, ultimamente movimentiamo dalle 20 alle 50mila persone. Sono numeri da grandi eventi, si parla di milioni di euro».
In termini di lavoro - penso in particolare a organizzatori, tecnici e musicisti professionisti che suonano nei mille - quanto pesa il vostro fermo di un anno?
«I nostri collaboratori sono circa 200 persone, ma con noi lavorano a chiamata, quindi il nostro fermo impatta su di loro in modo relativo, anche se poi deve purtroppo sommarsi al blocco generale dei concerti. Il nucleo centrale di Rockin’1000 è composto da una ventina di persone. Chi probabilmente soffre di più sono i nostri “guru”, musicisti professionisti lontani dal palco da troppo tempo, o magari costretti alla Dad per insegnare musica. Non è solo un problema economico: per un musicista il fatto di esibirsi è la radice della passione, quello che lo fa andare avanti. Sopportare così a lungo questo blocco è faticoso e suonare in streaming non lo è la stessa cosa».
Puoi certamente dire la tua sulla commistione fra concerti e digitale, anche se ovviamente i Rockin’1000 nascono senza il problema della pandemia e usano i social per arrivare al «concerto vero». Cosa pensi delle alternative che in questi mesi abbiamo avuto alla musica dal vivo?
«Sono cose davvero diverse e credo che nulla possa eguagliare le emozioni che si vivono ad un concerto. Detto questo, io non sono e non sarò mai uno che demonizza e minimizza il ruolo della rete e dei social. Senza queste cose è evidente che i Rockin’1000 non esisterebbero! Per venire a ciò che ho visto, diciamo che nei primi mesi di pandemia era apprezzabile lo spirito ma si sono fatte troppe cose poco ragionate e con poca qualità, alcune francamente noiose. Negli ultimi mesi le proposte si sono ridotte ma sono anche più curate, con esiti assai migliori. Anche noi abbiamo organizzato eventi on-line, ad esempio per campagne benefiche in collaborazione con Aperol. E poi per il Global Village di Dubai abbiamo radunato virtualmente 2500 persone da 80 Paesi, facendole suonare assieme dalle loro abitazioni. Una cosa del genere è possibile solo in virtuale e attraverso le immagini domestiche dei musicisti c’è stato modo di fare una specie di giro del mondo. È una cosa che mi ha emozionato».
Nel frattempo vi mantenere attivi sui social e avete anche il film di Anita Rivaroli in costante promozione…
«We Are The Thousand doveva essere proiettato in anteprima a Austin l’anno scorso e la cosa è saltata, ma poi il festival SXSW ha voluto nuovamente il film, che ha pure vinto il premio del pubblico. Anche se adesso è disponibile sulla piattaforma I Wonder, appena sarà possibile vorremmo riproporlo in sala, anche perché è piaciuto molto a chi l’ha visto. È un film che celebra la gioia, non ci sono mascherine e sembra provenire da un altro mondo. Oggi fa un effetto straniante ma bellissimo».
Sei il figlio del fotografo Giovanni Zaffagnini, il cui splendido lavoro di documentazione del mondo contadino romagnolo, al fianco di Giuseppe Bellosi, è tornato di grande attualità, visto che se n’è interessata un’Università straniera. Sia tu che lui avete fatto cose molto importanti, anche se molto diverse. Credi possa averti influenzato?
«Essendoci già lui, di sicuro ho sempre avuto chiaro che non sarei stato il fotografo di casa! (ride, nda). Battute a parte, mio padre mi ha permesso di crescere in un ambiente stimolante, frequentato da artisti come Luigi Ghirri, Dino Gavina e Guido Guidi. Di sicuro questo ha avuto influenza su di me, anche se poi io ho fatto cose diversissime da lui. C’è una differenza profonda ma interessante fra di noi: lui è attaccatissimo al suo territorio, all’idea di cercare lo straordinario nel quotidiano. Io, di converso, ho sempre viaggiato molto, cercando stimoli il più lontano possibile».
Hai conosciuto Raoul Casadei un po’ di anni fa. Che ricordo hai di lui?
«Lo conobbi proprio in occasione del primo concerto ufficiale dei Rockin’1000, allo stadio Manuzzi di Cesena. Lo invitammo perché, semplicemente, non poteva non esserci. Raoul era una bandiera della nostra terra e non appena è entrato allo stadio tutti l’hanno salutato cantando Romagna Mia! Si è emozionato e me l’ha ripetuto ogni volta che ci siamo incontrati dopo. È successo spesso, mi ha invitato al suo compleanno, in quelle magnifiche grigliate con la sua famiglia. Il fatto che lui e Mirko abbiano anche accettato di suonare la musica dei Nirvana insieme a noi è una cosa che mi ha inorgoglito e mi fa sorridere ogni volta che ci penso. La morte di Raoul è qualcosa di difficile da realizzare, proprio da concepire. Si sa il Covid è pericoloso soprattutto a una certa età ma Raoul era davvero una persona piena, traboccante di vita. Con la leggenda che lo avvolge, poi, sembrava un immortale».
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