«Divuziõ e superstiziõ dla nostra zènt» a Faenza secondo Mario Gurioli, al tempo del Coronavirus

Romagna | 08 Marzo 2020 Cultura
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Federico Savini
«I vecchi romagnoli praticamente non chiamavano neanche il dottore, che in genere arrivano in extremis, quando non c’era più niente da fare. “E pasarà” si diceva in casa, e mi ricordo che nel ‘58, quando a casa mia l’asiatica ci aveva allettati in 13 su un totale di 16 familiari, non c’era un allarmismo paragonabile a quello che circola oggi, più una forma di fatalismo. Si dava alla vita meno valore di quanto se ne dia oggi? Non lo so, direi che non ci si poneva proprio la questione in questi termini». Mario Gurioli dovrebbe - capite da voi come mai il condizionale sia d’obbligo - essere il secondo protagonista dei «Lõn ad Mêrz», incontri su dialetto e tradizioni al teatro dei Filodrammatici di Faenza dove appunto lunedì 9 alle 21 il professore faentino, nonché mattatore della Filodrammatica Berton dovrebbe relazionare, interagendo come sempre col pubblico, sul tema «Divuziõ e superstiziõ dla nostra zènt», peraltro già ampiamente affrontato da Gurioli nel 2014 nel volume La divuziõ dla nostra campãgna (Tempo al Libro). Tema che si presta anche - al di là dell’eventualità che la serata si faccia o si rimandi - a riflettere sull’attualità dei giorni grigi dell’Italia al tempo del Coronavirus.
«Al tempo dei nostri vecchi - dice Mario Gurioli - di fronte a un’epidemia la gente si sarebbe, credo, limitata a pregare, continuando a fare la propria vita, in fondo anche in mancanza di alternative, oltre che di cure».
Che tipo di spiritualità c’era in questo modo di intendere, e dar valore, alle pratiche religiose?
«L’aspetto rituale era dominante e indicativo di un modo di vivere la fede molto semplice, ma parliamo di una devozione radicata, vissuta con grande trasporto e fiducia. Nelle campagne, in particolare, la ritualità religiosa faceva parte delle azioni e dei pensieri quotidiani, e lo ricorderemo insieme ai Filodrammatici».
Però parlerai anche di superstizione. Quant’era sottile il confine?
«Era sottilissimo, e in certi casi lo è ancora oggi. Si possono fare tanti esempi, a partire dal culto per Sant’Antonio, che era condiviso anche dagli anticlericali. La festa era sentitissima, si benedicevano i pani, gli uomini e gli animali e questi ultimi, per la vita nei campi, erano fondamentali, un anello della catena economica e quindi il santo che li proteggeva era caro a tutti, nessuno escluso. Se un animale si ammalava si diceva “fai al gòz!”, perché bisognava subito capire se la bestia avesse l’invigia, cioè il malocchio. Si riempiva un piatto d’acqua, all’interno del quale poi si faceva cadere qualche goccia di preziosissimo olio. Gocce in numero dispari, rigorosamente, e se le gocce galleggiavano intere non c’erano problemi, l’animale sarebbe guarito. Se invece al gòz al squaieva allora voleva dire che c’era l’invigia. Per debellarla, il contadino scagliava il piatto con le gocce dietro di sé e lo doveva fare tre volte, al mattino a digiuno. Se le gocce continuavano a squagliarsi bisognava rivolgersi a persone con poteri particolari, i striò, e ad esempio a Faenza era celebre Pirò d’la Filanda. Gli si portava un po’ di pelo o alcune penne della bestia e la persona coi poteri scacciava il malocchio».
Superstizioni al di fuori della malattia?
«Ce n’erano tantissime. Ad esempio nel matrimoni, che tra l’altro in un anno bisesto come questo si sarebbero contati e svolti solo in casi eccezionali, tipo sposa incinta o partenze del promesso sposo per il fronte. Ad ogni modo, quando ci si sposava era necessario che nella vestizione della sposa ci fosse qualcosa di “storto”, di indossato volontariamente a rovescio, per scongiurare la sfortuna. Non parliamo poi dei temporali, una sventura che veniva “combattuta” in vari modi. Ad esempio agitando verso la tempesta un rametto di palma benedetto intinto nella brace, pregando contro le saette magari mentre il prete faceva suonare le campane, e qui si capisce bene la fusione tra devozione e superstizione. Si poteva poi inforcare nei campi le zappe e i forcali, incrociando sempre sull’aia anche la catena del paiolo, sempre per scongiurare la bufera. In caso di grandine, il bambino più piccolo di casa poteva addirittura subire la “tortura” di vedersi far scivolare tre chicchi lungo la schiena, e se era molto piccolo il padre poteva anche prenderlo e sventolarlo contro la tempesta, nella speranza che la furia meteorologica si impietosisse per la povera e innocente creatura…».
A livello di calendario c’era commistione fra devozione e superstizione?
«Capitava anche questo, ad esempio nel giorno dell’Ascensione, importantissimo per i credenti e quasi una seconda Pasqua. In quel giorno, i nostri contadini erano molto attenti a procurarsi l’“ov d l’Ascensiò”, un uovo deposto quella mattina, che a casa mia la nonna pretendeva fosse di una gallina nera, quindi io mi alzavo prima dell’alba per procurarmelo con certezza. L’uovo si conservava sull’asse del camino, pensando fosse miracoloso, perché nel giorno dell’Ascensione “Un ‘s mov gnénc e picì int’ l’ov”. In caso di temporali lo si metteva nell’aia, facendosi segni della croce e quant’altro. In epoca più antica lo si buttava nei gorghi dei fiumi perché si pensava che la corrente l’avrebbe portato fino ai cadaveri delle persone disperse, permettendo così di rinvenirne le salme…».
E le preghiere quanto si «contaminavano»?
«Molto, e infatti ne leggeremo alcune in pubblico, insieme agli attori della Berton. Era preghiere in una lingua mista, quella di un popolo sostanzialmente analfabeta, che oggi possono far sorridere ma sono anche molto indicative dello spirito dei contadini romagnoli. Questo perché si ritrovano spesso formule ai limiti del provocatorio, quasi dubbiose tipo “Dio, se ci sei, ho una cosa da dirti”. Era questo il piglio! Senza contare le invocazioni, che spesso erano molto materiali, partivano dalla salute ma finivano coi soldi e i raccolti, diciamo che alcune preghiere erano molto “interessate”, ecco».
Che Dio era quello a cui si rivolgevano i contadini romagnoli?
«Beh, non faccio il teologo e mai mi permetterei, però l’impressione piuttosto netta è che fosse un Dio diverso da quello che di oggi, più biblico e severo, capace di punire. Poi, come abbiamo visto con il Coronavirus, c’è ancora chi vede nelle epidemie una punizione divina, anche se mi pare che il Papa dica tutt’altre cose e la pensi in modo molto diverso».
Ma c’era qualcuno, nel vecchio mondo contadino, che si rifiutava proprio di credere a quelle che oggi consideriamo superstizioni?
«C’era, anche se parliamo di nette minoranze. In genere chi aveva grande fede politica si considerava superiore alla superstizione, tipicamente anarchici, mazziniani e socialisti della prima ora. Ricordo bene che Cencio d’ Ghibèt, pur avendo il fuoco di Sant’Antonio, rifiutò sempre di “farsi segnare” perché la considerava una diceria popolare. Ma si tratta di eccezioni».
E di fronte alle epidemie, come reagiva il popolo?
«Pregava, non poteva fare altro. Ma c’era appunto meno allarmismo, con alcune iniziative dei singoli che oggi considereremmo particolarmente razionali, vedi il vescovo di Modigliana che, al tempo dell’influenza Spagnola, a un certo punto diede ordine di non suonare più le campane a morto, perché i continui rintocchi funebri stavano provando psicologicamente la popolazione. E così, il grande morbo si riuscì ad affrontare un po’ meglio».
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