Da Ravenna e Faenza la voce dei genitori: "Ridateci scuole e parchi"

Romagna | 25 Aprile 2020 Cronaca
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Silvia Manzani e Barbara Gnisci
«Sono agguerrita e desiderosa che le persone si mobilitino al più presto». Alessandra Farabegoli, web strategist ravennate, è anche mamma di un ragazzo che frequenta la prima all’Itis «Nullo Baldini» di Ravenna. Il marito, ingegnere informatico, anche prima dell’emergenza Coronavirus lavorava da casa: «A casa nostra ci sono più dispositivi che persone, in questo senso possiamo ritenerci molto fortunati. Ma davvero, stanno spacciando lo smart working come quello che, in realtà, è un lavoro da remoto, sempre che lo si riesca a fare. Il paradosso è che prima molti datori di lavoro non lo concedevano per paura di non poterlo controllare mentre ora si pensa, con i figli appresso, che le persone possano essere super produttive comunque. Uno scandalo: un conto è lavorare da casa soli, un altro è farlo con i figli intorno, che in molti casi devono seguire le lezioni, fare compiti, studiare». A fare il paio con i discorsi sul lavoro, infatti, è il mondo della didattica online che, secondo Farabegoli, viene venduta come la panacea: «Io stessa, che mi occupo di formazione, se in presenza riesco a parlare per tre ora di fila, ora ho dovuto rivedere le modalità di interazione e trasmissione dei contenuti. Con i ragazzi, che più degli adulti necessitano della parte relazionale e sociale, non è possibile pensare di continuare a fare scuola solo in video. La presenza è necessaria. Allora ragioniamo sulle classi scaglionate, sui turni, sul rimanere di più all’aria aperta, su un ripensamento dei trasporti per evitare che i ragazzi si ammassino sui bus. Ma smettiamo di fingere che si possa andare avanti così. Non è possibile che si pensi di delegare la soluzione alle famiglie, che nel 90% dei casi significa, poi, delegare alle donne. Nelle task force ci devono essere più figure femminili. Metterci in prevalenza gli uomini vuol dire dare importanza solo alle esigenze di riaprire le fabbriche e le attività produttive. Ditemi come lo si può fare senza riaprire, in modalità di certo diverse da prima, le scuole. Servono esperti di digitale ed esperti di pedagogia a fare da guide». 

LETTERA PER AZZOLINA
Sulla stessa linea d’onda è la petizione partita da Ravenna per chiedere alla ministra all’Istruzione Lucia Azzolina che vengano definiti quanto prima gli step e le modalità utili a garantire un graduale ritorno a scuola e per sottolineare come la didattica a distanza non possa essere considerata come un valido sostituto della scuola in presenza. La prima firmataria è una mamma, insegnante ed eduatrice, Soheila Soflai Sohee, che ha coinvolto altri genitori, psicologici, docenti: «Ho due figli di 8 e 10 anni, per quanto i loro insegnanti siano bravi e attenti, trovo che la didattica a distanza sia un’aberrazione. Non possiamo cadere nel grande equivoco per cui le ore di Dad equivalgono a ore di scuola».

«HO PRESO LA MULTA»
«Ho paura che tutto questo porterà a un aumento della dispersione scolastica. Penso a quei bambini Rom e stranieri, che seguivo nei compiti prima del virus, e a tutte quelle famiglie che fanno più fatica con la tecnologia o anche solo con la lingua. Come possono questi genitori aiutare i propri figli?». Linda Maggiori, scrittrice e blogger faentina, è mamma di quattro bambini dai 2 ai 12 anni: «Con la scuola ci stiamo trovando in difficoltà anche noi: sono in tre ad avere bisogno del computer e noi non ne abbiamo così tanti a disposizione. E, inoltre, ci accorgiamo che fanno fatica. Non è la stessa cosa seguire le lezioni in questo modo e manca, soprattutto, un elemento fondamentale della scuola: la socialità». Ma ci si adegua a tutto, anche al fatto che la scuola quest’anno non riaprirà: «Quando c’è stata la chiusura ero certa che questa precauzione fosse necessaria, ma adesso, vedendo paesi che si muovono in maniera diversa, come la Danimarca, dove fanno lezione all’aperto, o la Francia che sta riaprendo le scuole gradualmente, dando la priorità a quegli studenti con più difficoltà sociali, ho la conferma che la nostra situazione sia il riflesso di mancanze e problematiche antecedenti al Covid-19». Classi troppo numerose, con pochi spazi all’aperto, che scompaiono o quasi alle scuole medie, didattica quasi esclusivamente frontale sono alcune caratteristiche delle nostre scuole: «Mi sono sempre battuta per l’outdoor education, modalità educativa che qui in Italia è portata avanti solo da alcuni insegnanti virtuosi e quasi mai al di là delle scuole materne. Questo sarebbe il momento di pensare a strategie didattiche che consentano agli studenti di passare più tempo fuori, considerando anche il fatto che a contatto con l’aria diminuisce la carica virale del virus. Ciò non vuol dire che si debba per forza stare nel verde, ma si potrebbe fare matematica anche facendo una passeggiata in centro, per esempio». Una riflessione questa che riguarda non solo il contesto scolastico: «I nostri figli sono stati lasciati fuori  dal Decreto, visti come possibili vettori del virus, sono stati chiusi in casa, dimenticando che la vita all’aria aperta fa bene al loro sviluppo fisico, mentale e sociale». Lo sa bene Linda che per far raccogliere qualche fiorellino ai figli di 2 e 7 anni si è presa una multa: «Ero al parco a 50 metri da casa. Mi sono sentita dire che se fossi stata a Brescia, avrei preso la situazione più seriamente. Io mi rendo perfettamente conto della situazione drammatica che stiamo vivendo, ma credo che si potrebbero adottare alcune misure per rendere il lockdown più vivibile per i bambini. In alcuni casi non è nemmeno chiaro che cosa si possa fare. So di dover stare a un raggio di 200 metri da casa, ma  non sono sicura di essere in regola se i bambini giocano o vanno in bici qui intorno. Mi chiedo poi perché posso calpestare il cemento e non l’erba, perché posso portare mia figlia con me al supermercato ma non in un parco all’aperto. C’è confusione rispetto a quali siano i nostri diritti. Molti genitori si stanno muovendo a tentoni cercando di tutelare la salute e la libertà dei propri figli, ma non sapendo esattamente cosa fare. Un mio amico che vive in Svizzera, mi ha detto che nei loro giardini condominiali i figli di due o tre famiglie vicine di casa possono giocare insieme senza creare degli assembramenti con più di sei o sette bambini. Qui da noi non si può, ci si dovrebbe organizzare in maniera tale che i bambini non si incontrino mentre sono sotto casa. Ma per i bambini è innaturale. Uno dei miei figli mi ha detto: «Se non posso giocare con nessuno, che cosa scendo a fare?”. Per questo bisognerebbe trovare soluzioni e compromessi di buon senso, che tutelino anche il diritto al gioco e alla socialità dei bambini». 

«IL VERDE DI CASA»
«Se le scuole riaprissero domani, i miei figli io li manderei». A parlare è Maria Cristina V., ravennate, mamma di due bambini di cinque e dieci anni: «Penso a tutti quegli studenti, come i miei figli, che quest’anno concluderanno un ciclo di studi per cominciarne un altro a settembre. In realtà per loro questa chiusura non ci sarà mai e, in un certo modo, rimarranno “sospesi” senza un saluto finale a insegnanti, compagni e, in generale, a una fase importantissima della loro vita. E non oso nemmeno immaginare come sarebbe cominciare la prima elementare o la prima media  attraverso uno schermo». Ma intanto si sta a casa: «Noi siamo fortunati, perché viviamo in un condominio dove c’è del verde e i vicini hanno anche spostato le loro macchine per lasciare ai bimbi un po’ di spazio in più per giocare. Ma credo che, tranne sporadici casi, il buonsenso sia andato fuori dalla finestra. Mi riferisco soprattutto a come si sta comportando il governo nei confronti dei bambini: i cani possono fare la passeggiata e loro, no? Il nostro non è un paese per piccoli». Sono passate parecchie settimane dalla chiusura delle scuole: «Le informazioni che ci arrivano fanno sorgere tanti dubbi. Chi ce lo dice che questa influenza non fosse in giro già da tempo? Quanti malati c’erano già a dicembre e gennaio? So di classi decimate e di casi di febbre alta che è durata per giorni e giorni. Una mia amica ha da poco perso suo padre per una causa estranea al virus e sulla cartella che le è stata consegnata, ha trovato scritto “sospetto Covid-19”. Morale della favola, lei non ha potuto salutare suo padre».
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