Cotignola, Domenico Iannacone inaugura sabato 27 la stagione del teatro Binario

Romagna | 27 Gennaio 2024 Cultura
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Federico Savini
«Un teatro che prende vita dalla televisione, e che in un certo senso ne è la continuazione. Sempre nel segno della coerenza, di un vero e proprio “mandato televisivo”». Domenico Iannacone è uno dei migliori autori televisivi italiani, e molto spesso chi lo scopre va a cercarsi le sue cose precedenti, oltre a non perdersi le nuove. Attraverso programmi di Rai3 come I dieci comandamenti e Che ci faccio qui, che nella sua versione teatrale Che ci faccio qui, in scena inaugurerà sabato 27 alle 21 la stagione di Sipario 13 al teatro Binario di Cotignola, ha dato voce agli ultimi della società ma anche a geni isolati e inconsapevoli maestri di vita; agli emarginati, insomma, ma non per forza agli sconfitti, anzi quasi sempre a persone che sono baluardi di dignità, inventiva e ancora una volta coerenza, e che se sono marginalizzati è per eccesso di sfortuna o di talento; o magari per una visione delle cose troppo aliena alle ristrettezze del nostro immaginario. «Rispetto al racconto televisivo il teatro dà sicuramente altre prospettive - spiega Domanico Iannacone -, mi permette di adottare un punto di vista più intimo, uscendo dalla quarta parete e raccontando i personaggi protagonisti dei miei programmi».
Personaggi sui quali i programmi sono sempre incentrati. Qui diventi giocoforza protagonista tu…
«Anche se il focus rimane sulle storie, certamente il teatro mi permette di usare la parola in maniera più estesa. Il racconto, da visivo che era diventa orale, secondo la tradizione del teatro di narrazione civile. Questi racconti afferiscono a istanze che emergono direttamente dalla società; quello che faccio da anni è attraversare luoghi e incontrare persone che mi chiedono di rivendicare i loro diritti e raccontare le loro storie. Penso che il teatro rappresenti un’amplificazione della possibilità di farlo. Un modo per universalizzare, ancor di più, questa richiesta».
A proposito di potere delle parole e di racconto orale, l’esempio del successo dei podcast sembra confermare questa necessità di parole, avvertita proprio dal pubblico. Come mai? C’è tanta incertezza in giro?
«C’è di sicuro tanta distrazione, la quotidianità è talmente densa di cose, magari poco importanti, che siamo continuamenti distratti da qualcosa. Credo che il pubblico senta il bisogno di concentrarsi sugli argomenti e ogni mezzo di comunicazione ha le sue peculiarità. Della televisione Pasolini parlava senza mezzi termini come di un mezzo di distrazione, ed è vero che spesso rimane accesa per ore senza dire niente, senza lasciarci nulla. L’idea di poter entrare in un teatro per me è un modo per dare valore aggiunto a quello che già cerco di fare di in tv. Ci sono delle affinità col podcast, proprio per l’importanza della parola, che nel podcast ha il vantaggio di poter essere assorbita anche chiudendo gli occhi. Il teatro però ha qualcosa che né il podcast né la tv hanno: un’esigenza civile. E una condivisione cercata. Il pubblico esce di casa per andare a teatro, in una sorta di rituale che porta le persone a ritrovarsi come in una piazza, la vecchia agorà che prevedeva il confronto pubblico, collettivo, quello che ormai non c’è più. E invece è così necessario, perché aiuta a curare le ferite della società».
In tv fai sempre programmi senza pubblico. È voluto?
«Non proprio, il progetto iniziale di Che ci faccio qui prevedeva uno spazio in cui accogliere le persone. Qualcosa di assai poco convenzionalmente televisivo, una specie di hangar con un cubo dal quale fuoriuscivano immagini. E in questo cubo o io entravo per andare nella storia oppure ne venivano fuori i personaggi appena raccontati. Era un’idea di stampo teatrale, a pensarci bene».
Quanto si fatica a portare avanti un genere di televisione che porta gli ultimi in prima serata, sempre con garbo e passione, e senza sensazionalismi?
«Ho lavorato in modo continuativo su Rai3 per 23 anni. Poi c’è stato un anno e mezzo di fermo, che a maggio si dovrebbe interrompere, con alcune prime serate. Diciamo che la difficoltà dipende soprattutto da quanto si ricerca la coerenza, che in questo momento non è un valore molto “in voga”, per così dire. In questa assenza dalla tv, il teatro mi ha accolto a braccia aperte, non mi sono mai sentito orfano ma vorrei presto tornare sul piccolo schermo e portare avanti quello che ho sempre vissuto come un “mandato”».

foto di Stefano Ciccarelli
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