Conflitto israelo-palestinese, il ravennate Taddei: «Tenere alta la tensione è una strategia»

Romagna | 31 Maggio 2021 Mappamondo
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Silvia Manzani
«Qualche anno fa ero a Ramallah con i miei due bambini, stavo facendo una grigliata con degli amici palestinesi quando mi ha chiamato la compagna di mio padre da Ravenna, preoccupata perché a Gaza stavano bombardando. Mi ha chiesto se avevo visto la guerra ma io, come sempre fino ad allora, non avevo visto proprio niente. Perché Gaza è a sessanta chilometri da dove ero io, ma è come se fosse a 60mila chilometri». Alessandro Taddei, regista teatrale, compositore e musicista, con la Palestina ha una certa confidenza territoriale e affettiva. Oltre ad aver conosciuto lì la madre dei suoi figli, originaria delle isole Baleari, per anni ha portato avanti in quelle zone, insieme a Enrico Caravita, il progetto Ponte Radio (sul quale è stato anche girato il film «Diseponti»), un percorso artistico di ricerca che, insieme a bambini e adulti, indaga le cause che portano alla distanza culturale e fisica tra le persone. Ma in quelle terre è nato anche «Nero Inferno», prima parte della «Trilogia quasi dantesca» che nel 2009 vince la menzione per il miglior spettacolo conferita dalla Biennale di Venezia: «La prima volta arrivai nel 2008 per portare uno spettacolo teatrale nato sulla scia del lavoro che avevo realizzato in Bosnia. Avevo tanta curiosità, ma nessuna ideologia preconcetta sul conflitto che la attraversava da sessant’anni. Ricordo ancora bene le tappe che facemmo: l’atterraggio a Tel Aviv, una città evoluta, di tante mescolanze e senza tensioni. E poi, dopo 80 chilometri, lo spazio si trasforma: mentre si guida verso Gerusalemme, si vedono i boschi con le rovine dei villaggi palestinesi, prova concreta di come una civiltà sia stata soppiantata da un’altra. Gerusalemme per me è la Disneyland delle religioni, è il muro del pianto insieme al Santo sepolcro e alla moschea di al-Aqsa. Passata Gerusalemme, inizia la West Bank, si entra in Palestina ed è come fare un tuffo nel passato: Jenin, dove stavo io, sembra l’Alfonsine nel 1945 anche per la realtà contadina e perché protagonista di una grande resistenza popolare. Questo va detto, perché falsare l’identità di un luogo non significa aiutare i palestinesi». Taddei, che dal 2015 al 2018 ha vissuto anche in Libano, sulla guerra israelo-palestinese ha uno sguardo molto diverso da quello che avrebbe dall’Italia: «La Palestina è la terra che ha accolto i miei figli, io le sono grato e affezionato. Ma io voglio bene ai palestinesi quanto agli israeliani, perché in quei territori mantenere alta la tensione è strategico: perché ci sono interessi internazionali, perché le grandi organizzazioni altrimenti non lavorerebbero più, perché altrimenti a che cosa servirebbero i milioni di dollari di armi vendute dagli Stati Uniti. Sia lì che in Libano ho portato avanti il progetto linguistico Babel. Inspiegabilmente, però, dal 2016 il progetto è stato bloccato dalla Regione Emilia-Romagna che lo aveva sostenuto fino ad allora, proprio quando avevo iniziato a diffonderlo nelle scuole pubbliche italiane. Questo fa pensare a quanto l’idea di dare alla gente del posto strumenti di evoluzione culturale non sia funzionale, non è un caso se l’Italia, Paese del Mediterraneo, si senta così estranea a una questione su cui i riflettori sono accesi da 73 anni. Fare in modo che il dialogo verso la pace non avvenga è una scelta: mettere i bastoni tra le ruote a chi, quel dialogo, prova a favorirlo, ne è la diretta conseguenza». Fare il bene dei palestinesi, per Taddei, significa anche riconoscere all’Autorità Nazionale Palestinese la scarsa capacità di governare un Paese: «Tutti sanno che l’Anp non è in grado di gestire uno Stato: ci sono partiti allo sfascio che non vogliono un ricambio generazionale. E bisogna smettere di raccontare la favola del ritorno. Peccato che da fuori ci facciano vedere solo la logica dello scontro, del male verso il bene, del buono verso il cattivo. È chiaro che anche io ho visto chi è il più forte e chi è il più debole, sia a livello militare che di propaganda. Ma quel che avviene in Israele e Palestina non è molto diverso da quel che accade più o meno metaforicamente anche tra Haiti e Repubblica Dominicana, perché alla base dei conflitti c’è sempre la dualità umana che divide e non unisce. Il punto è che in tv ci fanno vedere solo Gaza, una galera di trenta chilometri dove ho perso alcuni amici. Gaza è un esperimento sociale, un luogo dove non avvengono certe cose belle, dove ci sono le bombe, ma che ci fa deviare l’attenzione. Chi è che gode nel vedere i due popoli distanziarsi? Non certo chi vive là, da nessuna delle due parti».
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