Ciclismo, il fusignanese Mondini e la grande impresa del 1999: «Il piano, la richiesta ad Armstrong e la fuga: così 25 anni fa ho vinto una tappa al Tour»

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Luca Alberto Montanari
Venticinque anni. Un quarto di secolo. Praticamente una vita. «Eppure, ancora oggi, quando mi vedono e mi riconoscono, la prima domanda che mi fanno è sempre la stessa: sei quello che ha vinto una tappa al Tour?». Sì, Gianpaolo Mondini è quello che 25 anni fa ha tagliato per primo lo striscione del traguardo della Jonzac-Futuroscope, diciottesima tappa del Tour de France cannibalizzato da Lance Armstrong. Era il 1999, appunto 25 anni fa. Oggi Mondini, nato a Faenza il 12 luglio 1972 e residente a Fusignano fino all’età di 25 anni (praticamente nella prima metà della sua vita), lavora per una delle aziende leader del ciclismo, la Specialized ed attende con grande curiosità il passaggio del Tour nella sua Romagna.
Qual è stato il suo primo pensiero quando ha saputo che il Tour 2024 sarebbe partito dall’Italia e avrebbe attraversato la Romagna?
«Una parola: follia. Naturalmente in senso positivo. A volte non riesco neppure a crederci neppure oggi, mi sembra impossibile che possa passare da noi. Vorrei riuscire a percepire e a vedere, con gli occhi di un ragazzino o di un appassionato, cosa significhi veramente assistere a una gara di questa portata e di questo prestigio. Io oggi lavoro per la Specialized, supportiamo le squadre professionistiche e quindi sono ancora a contatto con questo mondo. Ho partecipato agli ultimi 15 Tour de France come tecnico e so cosa vuol dire. Ma per un appassionato o un tifoso, sarà un fine settimana epico e straordinario. Non vedo l’ora di vedere la gente. Perché quello che la gente non si rende conto è l’impatto mediatico che ha il Tour a livello mondiale. Guarderanno tutti la Romagna con occhi diversi».
Cosa cambia rispetto al Giro d’Italia?
«L’evento e la portata dell’evento. Dietro al SuperBowl, c’è il Tour de France. Tra l’altro parliamo di una partenza, quindi dei primi giorni, dove c’è la visibilità massima. Parliamo di numeri impensabili per il Giro, la nostra terra sarà pronta. Il Tour muove talmente tanto business che vale 100 volte il Giro».
Lei ha partecipato a un solo Tour, nel 1999, ma è riuscito a vincere una tappa. Cominciamo con i ricordi.
«Diciamo che sono anche stato fortunato, perchè come squadra siamo stati chiamati solo un mese prima. Non saremmo dovuti andare, poi venne esclusa la Caldirola e noi partecipammo con una wild card, senza aver programmato nulla. Un po’ come quando la Danimarca, inizialmente non qualificata per gli Europei di calcio del 1992, poi vinse il titolo. Personalmente, il Tour mi si addiceva meglio, ero molto forte in pianura e le velocità al Tour sono più alte rispetto al Giro. Al Giro si arrivava in volata o in salita ed io diventavo più utile per il velocista o lo scalatore. Al Tour, invece, sono riuscito a mettermi in proprio e a vincere una tappa».
Lei era un corridore perfetto per le «imboscate» da lontano.
«Sì, anche perché perdemmo la nostra punta di diamante per le volate, Nicola Minali, dopo una settimana. Anche il nostro uomo di classifica Bo Hamburger saltò presto. Quindi mi concentrai sulle fughe. Entrai in 7-8 tentativi da lontano, feci punti per il Gpm, passai per primo sul Telegraph e arrivai nono nella classifica a punti. Ma la vittoria di tappa resta la vittoria più bella».
Come andò quel giorno?
«C’era un corridore da solo in fuga, ma sotto controllo. Quindi sembrava che si potesse arrivare in volata. A 50 km dal traguardo ci furono una serie di scatti, io affiancai Lance Armstrong, che era maglia gialla, e gli chiesi: “Oggi lasciate andare?”. Annuì. Io partii per ultimo con altri 13-14 corridori, per andare a prendere il fuggitivo, e ai 4 chilometri dal traguardo feci una follia».
In che senso?
«Mi accorgo di essere davanti. C’era vento laterale, quindi scelsi di spostarmi nel lato più esposto per mettere tutti in difficoltà. Senza aumentare troppo, mi sono spostato a destra partendo davanti, una cosa che non si fa mai. Avevo dietro il più debole e scelsi di accelerare. Fu la mossa vincente, perché feci gli ultimi 4 km da solo e vinsi».
Ricorda ancora quelle emozioni?
«Certo. Avevo letto bene la corsa, ma non era nulla di speciale. Poi mi sono reso conto dell’entità, cioè di vincere in un evento come il Tour. L’onda mi ha travolto: non controllavo più il telefono, i miei genitori erano impazziti, gli amici non vi dico. Ancora oggi, quando mi vedono, mi chiedono: “Ma tu hai vinto una tappa al Tour”. Ho vinto altre cose, ma è questa vittoria che cambia la tua vita da corridore».
Dopo quel giorno, cosa ha fatto?
«Ho corso fino al 2004 come Elite, ho tenuto duro fino ai campionati italiani e poi a settembre 2004 mi sono iscritto all’università e mi sono laureato in psicologia. Nel 2010 ho iniziato a lavorare per Specialized. Sono un tecnico di collegamento, tra l’azienda e le squadre, con molteplici funzionalità: raccogliere feedback con ingegneri, forniture, organizzazione di eventi marketing intorno alle squadre. Abito in Svizzera, ma una parte della mia famiglia sta a Mercato Saraceno, proprio ai piedi del Barbotto, dove passerà il Tour».
Cosa pensa della prima tappa da Firenze a Rimini?
«Con un gruppo l’abbiamo provata, è una tappa durissima. Mi aspetto un grosso controllo degli uomini di classifica, ma questo potrà portare a una selezione e capiremo chi non potrà vincere il Tour già alla prima tappa. Sarà una giornata piena di insidie e non solo in salita. Per me saranno fondamentali anche le discese, che sono tecniche: quasi cinque ore di massima concentrazione, cosa che non accade mai il primo giorno».
E della Cesenatico-Bologna cosa pensa?
«Sarà una tappa meno difficile, ma a livello di insidie simile. La pianura iniziale favorirà gli scatti, ci sarà una fuga da lontano. Sarà una giornata ideale per chi vorrà attaccare, mi aspetto una tappa spettacolare soprattutto per chi sarà davanti, mentre più di controllo per il gruppo».
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