Christopher Angiolini alle prese con il Bronson chiuso un attimo dopo la riapertura e l’incertezza del futuro

Romagna | 31 Ottobre 2020 Cultura
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Federico Savini
Se non fosse drammatico sarebbe persino buffo. «Dopo aver chiuso a fine febbraio, il Bronson ha ufficialmente riaperto i battenti il 24 ottobre, per chiudere con l’ordinanza esattamente il giorno dopo. La cosa che stupisce e lascia perplessi è che c’eravamo abituati all’idea che, rispettando i protocolli, lo spettacolo dal vivo fosse gestibile. Credevamo di fare la cosa giusta, insomma. Chi ha presentato i programmi nelle settimane scorse lo ha fatto perché questo era il momento di farlo, altrimenti era come rinunciare da soli a fare spettacoli». Christopher Angiolini racconta così quel certo «spaesamento» che è toccato in sorte a tutti gli operatori italiani del mondo della cultura, della socialità e dello spettacolo, investiti dall’ultimo Dpcm governativo. E fa bene a ricordare che, tradizionalmente, questa stagione è quella in cui si presentano i programmi per l’inverno, visto che - per rimanere in provincia e nel seminato musicali - oltre al Bronson l’avevano appena fatto anche il Mama’s e il Socjale, e pure il Cisim aveva riaperto i battenti. Per via del suo e ruolo «trasversale» - con il Bronson, ma pure col Fargo in centro a Ravenna e l’Hana-bi sulla spiaggia di Marina - Christopher Angiolini è la persona più indicata per tornare a fare il punto sul settore all’inizio di questo nuovo, difficile ciclo.
«Questo Dpcm non era propriamente inatteso, visto che da un paio di settimane si capiva che ci sarebbe stata una stretta alle regole - dice Christopher -, però pensavo che sul tema la scelta sarebbe stata delegata alle Regioni. Quando abbiamo presentato il programma del Bronson eravamo consci delle difficoltà ma anche convinti che i protocolli adottati con serietà sarebbero stati sufficienti per ripartire».
Qual era lo scenario fino a una settimana fa?
«L’ottemperanza ai protocolli ovviamente taglia i ricavi, perché hai più spese e molti limiti alla capienza del pubblico. Si andava avanti soprattutto per dare un segnale di continuità. Avevamo puntato su artisti del territorio e presentazione di album che, tra l’altro, sono belli e sono stati incisi in questo periodo. Ricalibrarci per lavorare sul territorio ci era sembrata la cosa da fare».
Cosa vi fa più male?
«Sono sei mesi che rispettiamo protocolli rigidi, e non certo solo noi del Bronson, e per stare nelle regole abbiamo fatto investimenti. Constatare che l’attenzione alle regole poi non porta a risultati concreti fa un po’ male. Spostandoci al Fargo, io ho portato la corrente in piazzetta, installato ombrelloni e funghi riscaldanti, mentre altri hanno proprio comprato e installato dei dehor molto costosi. Ne è valsa la pena? Sul Fargo dobbiamo ancora decidere cosa fare, riprenderemo le riunioni-fiume che facevamo in primavera, ma insomma aprivamo il locale alle 17 e adesso dovremmo chiuderlo alle 18…».
Si è sentito più calore del solito, questa volta, intorno al mondo della cultura, come se davvero avesse subìto un torto immeritato…
«Sì, onestamente sì, anche se noi, come Bronson e come operatori di un territorio sensibile come quello romagnolo, non ci siamo mai sentiti abbandonati. Oggi il nemico, cioè il virus, è meno misterioso che in marzo. In quel momento c’era una gran paura, mentre oggi si è visto che lavorando nel rispetto dei protocolli il rischio è bassissimo se non azzerato. Il decreto sembra proprio mancare il bersaglio, i rischi veri si corrono in altri contesti e situazioni. Ribadendo che ovviamente parlo di chi rispetta le regole, è stato percepito da tutti che il settore della cultura e dell’intrattenimento è ritenuto più sacrificabile di altri, perché genera un volume d’affari apparentemente più basso di altri e probabilmente anche perché siamo rappresentati, divisi in micro-categorie e quindi con poco peso politico. Il guaio maggiore, secondo me, è che la nostra chiusura non inciderà sulla curva epidemica, perché il problema sta altrove e, una volta sacrificato il sacrificabile, questo Dpcm potrebbe preludere a un vero lockdown».
Sulle compensazioni com’è andata la volta scorsa e cosa vi aspettate?
«Sul futuro si può solo attendere. Sul pregresso noi abbiamo un’attività diversificata e abbiamo così avuto accesso a diversi fondi di copertura. Certo, non tutto è andato benissimo. Per esempio il credito d’imposta su igienizzanti e sanificazioni, nato al 50%, dopo l’estate è sceso al 20% e tra l’altro sul 2021… Gli stabilimenti balneari, poi, hanno dovuto pagare al 100% il canone demaniale, anche in un’estate così e con l’impossibilità di fare manutenzione per due mesi, causa quarantena».
E all’Hana-bi, in estate, com’è andata?
«L’estate ha dimostrato che il contesto all’aperto funzionava. Ovviamente con distanziamento, igienizzazione delle mani, temperatura e così via. I risultati sono stati interessanti, il pubblico era contento di venire. Per non fermare tutto quanto era necessario provare a portare avanti l’attività anche al chiuso. In fondo, alla mascherina e a tutto il resto ci siamo abituati: sei mesi fa sembrava fantascienza ma oggi non suona nemmeno strano».
«Transmissions» si farà?
«Nulla è certo, ci stiamo lavorando in questi giorni. Partirebbe il 26 novembre, due giorni dopo la fine dell’ordinanza, ma pensare di farlo è un bell’azzardo. E’ un festival europeo, con artisti da Paesi relativamente poco colpiti e protocolli di sicurezza rigidi, ma davvero è difficile dire oggi che si farà».
All’estero che fanno per lo spettacolo dal vivo?
«Paesi come Francia, Belgio e Germania hanno continuato a fare eventi, anche con curve peggiori della nostra. Però io credo che a breve cancelleranno tutto anche loro».
Conseguenze di lungo periodo?
«Non so in quanti si rialzeranno dopo questa seconda chiusura. La piccola impresa è la più colpita da questa crisi, e mi riferisco anche a bar e ristoranti, che possono andare avanti a certe condizioni ma non so a quanti converrà. Sul pubblico di cinema e teatro l’allerta mediatica sul contagio già pesava molto, le difficoltò non mancheranno».
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