Calcio, storie di ravennati d'adozione, Gadda si racconta: "I pianti al Motel Romea, le vittorie e Corvetta"

Romagna | 26 Aprile 2020 Sport
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Luca Alberto Montanari
«Quando vai al Sud piangi due volte: quando arrivi e quando parti». Estate 1994: Massimo Gadda non va al Sud, ma quando decide di trasferirsi da Ancona a Ravenna comincia a piangere. A dirotto. «Ero da solo - racconta oggi - mi dissero di andare a dormire al Motel Romea, ma io non volevo. Sì, lo ammetto: piangevo tutti i giorni, anche se non ero proprio un bambino. Avevo 30 anni, quasi 31…». Oggi Massimo Gadda di anni ne ha 56, ventisei dei quali trascorsi gloriosamente e orgogliosamente da cittadino ravennate. «Ho cambiato quattro case, senza mai abbandonare il mio amato quartiere San Biagio, ho visto crescere i miei figli, ho scoperto una città meravigliosa e luoghi incantevoli. Sono nato a Milano, mi sento legatissimo all’Ancona, ho giocato a Cesena e allenato a Ferrara, ma io mi sento innanzitutto un ravennate». E questo è l’album dei ricordi di uno dei tanti sportivi che sono presto diventati ravennati d’adozione. Per tre stagioni Gadda ha regolato il traffico nel centrocampo del Benelli, illuminando il gioco con una classe sopraffina, prima di allargarsi sulla fascia ed accomodarsi in panchina, sotto al parterre, per un biennio da allenatore.
Gadda, riavvolgiamo il film. E’ vero che lei non aveva una gran voglia di venire a Ravenna nel 1994?
«Diciamo che non ero molto convinto perché avevo 30 anni, non stavo benissimo ed ero reduce da otto stagioni, di cui ben cinque da capitano, ricche di soddisfazioni con la maglia dell’Ancona, con cui ho vinto la B e giocato anche una finale di Coppa Italia poi persa con la Sampdoria. Quando Paolo Conti, il mio procuratore, mi disse che Rino Foschi e Beppe Marotta (ai tempi direttore sportivo e direttore generale del Ravenna, ndr) mi volevano, io risposi che non sarei andato volentieri. Ma Paolo alla fine mi convinse. In panchina c’era Alberto Cavasin, che conoscevo e con il quale avevo un buon rapporto ed ero in confidenza, quindi alla fine accettai. Ancora oggi devo essere grato a Paolo, perché senza di lui non avrei mai giocato nel Ravenna e non avrei mai vissuto qua».
Lei arriva ad agosto in una piazza reduce dalla retrocessione dopo il primo anno di B. L’inizio non fu semplice.
«Alla prima giornata il presidente Corvetta decide di non mandare la squadra a Prato, per i noti contenziosi con la Federcalcio per il caso Cosenza. Il gruppo era un po’ particolare, come del resto i modi di Cavasin, che non erano apprezzati da tutti i giocatori. Io mi trovavo bene, ma ben presto si crearono alcune spaccature nello spogliatoio e i due attaccanti che avrebbero dovuto fare la differenza, cioè Fabris e Insanguine, non riuscivano mai ad essere decisivi. Poi Cavasin cominciò a litigare anche con i dirigenti e venne esonerato».
Al suo posto arriva Adriano Buffoni.
«Una persona di grande esperienza, che riuscì a gestire perfettamente lo spogliatoio, perché sapeva quali tasti toccare. Con Buffoni ci siamo messi a posto e siamo arrivati a un passo dalla B, perdendo in modo beffardo la semifinale playoff contro la Pistoiese: 0-0 al Benelli e 0-1 da loro, con un mio calcio di punizione al 90’ che uscì di pochi centimetri. Altrimenti saremmo andati a giocare la finale a Bologna contro il Fiorenzuola…».
Nonostante la delusione, Buffoni viene confermato e sceglie di ripartire da e con Gadda.
«In pullman, nel viaggio di ritorno da Pistoia, mi chiama davanti e mi spiega che avrebbe voluto consegnarmi le chiavi del centrocampo anche l’anno successivo. Il campionato ‘95-’96 comincia discretamente, ma poi Buffoni viene esonerato e al suo posto Corvetta sceglie Giorgio Rumignani. Con Rumi arriva la svolta».
Il Ravenna si compatta, trova i gol di uno straordinario Schwoch e torna in B.
«Rumignani era un caterpillar. Ci travolse con il suo modo di fare e di essere. Avevamo un gruppo solido, di giocatori forti e intelligenti. Battemmo l’Empoli di Spalletti e il Modena. La squadra era fortissima: Giorgetti, Schwoch, Buonocore, Zauli, D’Aloisio e il povero Mero. In estate prendemmo anche Pregnolato. Oggi posso dirlo: il nome di Beppe lo feci proprio io. Lo consigliai a Buffoni, perché sapevo che con Pregnolato avremmo vinto. La differenza la fece naturalmente Schwoch, arrivato come terza punta, mentre il titolare designato Fermanelli riuscì a segnare solo una volta. Con Rumignani fu una cavalcata trionfale e uno spettacolo anche fuori dal campo: in albergo cantavamo sempre, usando i tovaglioli e i bicchieri per il leggendario cirincincin».
La stagione 1996-1997, in serie B, sarà la migliore della storia del Ravenna, con la serie A che sfuma nel finale.
«Rumi non viene confermato e al suo posto arriva Walter Novellino, che 20 anni fa era un passo avanti rispetto a tanti colleghi. Con il suo 4-4-2 andavamo fortissimo, anche perché il gruppo della promozione era unito e completo e in estate arrivarono tanti ottimi giocatori, a cominciare da Beppe Iachini».
Però la promozione sfumò. Per quale motivo secondo lei?
«Il petardo su Zunico e la partita persa a tavolino contro il Brescia, le due partite in casa contro Reggina e Palermo. Ma perdemmo la serie A soprattutto fuori dal campo, perché qualcosa si ruppe sul più bello».
Lei che rapporto aveva con il presidente Corvetta?
«Corvetta era un grandissimo presidente. La società era sua, comandava lui, le regole erano chiare. Era un padre-padrone che quando si arrabbiava faceva paura. Lo vidi sfondare una porta a Carpi con un cazzotto, da buon pugile. Voleva bene ai suoi giocatori, aveva un carisma straordinario».
Cosa hanno rappresentato le tre stagioni da calciatore a Ravenna?
«E’ stata una bellissima parentesi, soprattutto perché veniva a 30 anni e dopo 8 anni meravigliosi ad Ancona, i più belli della mia vita. Però a Ravenna ho trovato il paradiso ed è per questo motivo che abito ancora qua».
In giallorosso, qualche anno dopo, ha pure mosso i primi passi da allenatore.
«Avevo cominciato a Lugo, poi sono venuto a Ravenna. Il mio nome lo fece Pregnolato, che evidentemente mi doveva un favore (sorride, ndr). Vincemmo la D dopo una stagione memorabile, con una squadra composta interamente da ragazzi del posto. Un orgoglio».
Le cose andarono meno bene l’anno dopo in C.
«Sì, però fu un anno formativo. Ma durissimo. In estate, con l’arrivo dei Ferlaino, durante il ritiro mi sono passati davanti sul campo di Riolo Terme almeno 50-60 giocatori diversi ed è stato difficilissimo plasmare il gruppo. Avevo qualche contrasto con il diesse Oreste Pelliccioni, che mi esonerò dopo quattro giornate. Ma poi se ne andò lui e io venni richiamato per sostituire Osvaldo Jaconi. A 13 giornate dalla fine eravamo ultimi, alla fine sfiorammo i playoff con un grande finale».
Qual è stata la persona che le ha dato di più, da calciatore e da allenatore, a Ravenna?
«Indiscutibilmente Beppe Pregnolato, al quale sono legato da un’amicizia fraterna. Uno dei tanti non ravennati come me che ha scelto di restare qua dopo aver indossato la maglia giallorossa e aver conosciuto la città».
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