Calcio, Santarelli e l’indimenticato padre Attilio: "Le vittorie a Bologna e quella scommessa con Zoff..."

Romagna | 14 Novembre 2020 Sport
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Tomaso Palli
Nella storia del Bologna c’è anche Tiglio. E non per caso. Attilio Santarelli, nel club rossoblù, è passato lasciando un segno indelebile con la conquista, nel 1961, della Mitropa Cup. Sfiorandola anche l’anno successivo. Ma non solo. Infatti, nel kit da trasferta della stagione 2017-18 che celebrava i 100 con il maggior numero di presenze nel Bologna, c’era anche lui accanto a stelle del calibro di Bulgarelli, Pasciutti, Nielsen, Signori e Di Vaio. Per rientrare in quell’élite ne ha raccolti 166 di gettoni tra Serie A, Coppa Italia e Mitropa. «Cordiale e umano. Un guascone, per come lo intendiamo noi in Romagna. E se proprio devo trovare una sola parola, dico romagnolo. Uno di quelli che il lunedì non vedeva l’ora di pagare il pranzo ai suoi amici da Marianaza (ristorante in centro a Faenza, ndr)». È Orlando Santarelli, il primo di due figli, a spiegare chi era il padre Attilio: «Ha lasciato un grande ricordo ovunque sia andato, per tanti è stato un privilegio conoscerlo».
 
DAL CAMPO… 
Cresciuto nella Robur Faenza e passato nel Baracca Lugo, l’estremo difensore faentino è presto chiamato a due grandi salti. Il primo, nel 1953, a Cagliari in Serie B. Poi, tre stagioni più tardi, al Bologna negli ultimi anni della trentennale presidenza Dall’Ara. «Lui (Dall’Ara, ndr) andava matto per mio padre - spiega Orlando - avevano un tale rapporto da scambiarsi battute in dialetto». L’avventura in Emilia si chiuse nella stagione divenuta celebre come quella de «lo squadrone che tremare il mondo fa». Sì, perché in quel Bologna-Modena 7-1, quando Bernardini pronunciò la frase «così si gioca solo in Paradiso», a difendere la porta rossoblù c’era proprio Santarelli. Passò poi a Mantova, sempre in A, accontentandosi di fare il vice di un certo Dino Zoff. «Mio padre capì il talento di quel ragazzo - continua Orlando - e, in maniera anche furba, gli propose di dividere i premi a fine stagione. Zoff, non ancora titolare, accettò e Attilio, di partite, ne giocò solo sette».

…ALLA PANCHINA 
Dopo il ritiro divenne allenatore, sempre fedele alla sua terra: «Era un vero romagnolo - ribadisce Orlando - e non poteva allontanarsi da qui. Addirittura, rifiutò il lungo corteggiamento di Ceresini (presidente del Parma, ndr) che poi scelse Arrigo Sacchi». La sua carriera in panchina si ferma in Serie C, raggiunta per ben tre volte su altrettante panchine. «Ricordo bene quella con il Riccione, ero allo stadio nello spareggio con il Bellaria vinto 1-0 dopo i tempi supplementari: una vittoria strepitosa, con 13mila persone, contro una squadra molto forte. Vinse anche con il Fano, sempre in D, venendo poi sostituito, nella stagione successiva da Bagnoli, futuro campione d’Italia sulla panchina del Verona. C’è poi stata anche la promozione col Forlì dove ha lasciato un ricordo indelebile per il carattere e per il gioco espresso». Poi la panchina del Faenza prima di lasciare il mondo del calcio: «Ricordo ancora le sue parole: “Non è più il mio calcio, vogliono comandare i presidenti ma sono io a voler fare la formazione”. Decise così di fermarsi».
 
TALE PADRE, TALE FIGLIO
In famiglia, è proprio Orlando ad aver portato avanti la tradizione calcistica anche se ora, a quasi 60 anni, si limita alla gestione del «Piccolo Bar» a Faenza. «Mio fratello Mirco è l’anti calcio - spiega ridendo - mentre io sono cresciuto con il pallone tra i piedi. A centrocampo, prima a San Francesco e poi nel Faenza debuttando a 16 anni. Sono passato al San Marino vincendo il campionato prima di trasferirmi al Baracca Lugo. Tutti ricordano quella squadra anche per l’allenatore, Alberto Zaccheroni. Scesi poi in Eccellenza, prima ad Alfonsine e poi a Fusignano. Nel 1992, con la rottura del ginocchio, lasciai». Ma le possibilità per Orlando Santarelli non sono mancate: «Ai tempi di San Marino, la Lucchese mi offrì la serie B: rifiutai. Fu una scelta di vita. Avevo mia moglie in dolce attesa e un bar da gestire con mio fratello. Ora, anche in virtù dell’infortunio, guardandomi indietro, credo di aver fatto la scelta giusta».
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