Sandro Bassi - Si è tenuta venerdì scorso al Museo Malmerendi di Faenza la prima delle tre serate dedicate agli scavi in rocche e castelli della collina romagnola, scavi condotti dal Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna. Prima relatrice Debora Ferreri su «Il castello di Rontana». Si è trattato dell’occasione per fare il punto su una ricerca ultradecennale - la campagna iniziò nel 2006 - e che ha portato a scoperte davvero impensabili. Sulla cima del colle di Rontana era presente solo il rudere di un torrione ogivale, oltre alla ben nota croce in cemento il cui aspetto si deve ai lavori del 1961 ma che era stata eretta nel 1901 in una versione assai più «francescana», in legno, utilizzando come basamento quel che restava di un altro torrione medievale. Gli archeologi scelsero proprio Rontana perché dalle fonti bibliografiche risultava esser stata un insediamento importante e molto duraturo, con vita iniziata attorno al IX-X secolo e protrattasi ininterrottamente fino al tragico assedio del 1591 conclusosi con l’eccidio dei difensori e la distruzione totale del castello.
SEPOLTURE E ATTIVITA’
«E invece - ha spiegato Debora Ferreri - l’insediamento si è rivelato assai più antico, poiché abbiamo trovato tombe anche del VI secolo, databili per via di ceramiche in terra sigillata africana deposte accanto al defunto. Naturalmente le tombe trovate sono state molte altre, e in molti casi anche con il fenomeno della “riduzione”: disponendo di spazi ristretti gli abitanti facilmente intercettavano tombe preesistenti e allora accantonavano le ossa presenti, “riducendole” magari in un angolo per far posto al nuovo arrivato. In un caso-limite abbiamo trovato un defunto circondato da ben nove crani, probabilmente di suoi parenti, e qui non è escluso che siano intervenute anche ragioni rituali. Abbiamo inoltre messo in luce i resti delle attività produttive che qui si svolgevano, testimoniate da una fornace per il vetro, una per il pane ed una forgia per i metalli. Nello stesso sito si svolgevano anche attività commerciali, perché la popolazione doveva contare oltre un centinaio di individui con tutti i relativi fabbisogni».
DADI, FIBBIE, CERAMICHE E PAVIMENTI
Ferreri ha illustrato con immagini anche il ritrovamento di reperti: fra i più significativi i circa cinquanta piccoli dadi da gioco in osso, le fibbie e gli altri resti di abbigliamenti e soprattutto le ceramiche trovate nel pozzo centrale: magnifici i cinque boccali manfrediani del ‘400 perfettamente integri e oggi esposti nella Rocca di Brisighella mentre le altre, in frammenti, sono in corso di restauro. Particolarmente interessante si è rivelato il pavimento in mattoni a spina di pesce, certo facente parte - lo si deduce dalla fattura accurata e molto elegante - di un ambiente di rappresentanza. Le ossa trovate sono ora oggetto di indagini antropologiche al fine di avere informazioni anche sulla cultura materiale e sulle condizioni di vita della popolazione «anche se - ha precisato Ferreri - sappiamo già da alcuni indizi, come l’usura dei denti o le deformazioni articolari e alla colonna vertebrale, che si trattava di persone dedite a pesanti lavori manuali e con aspettativa di vita media non superiore ai 40 anni». Un ultimo problema evidenziato da Ferreri è quello della valorizzazione, visto che il sito presenta parecchi aspetti «spettacolari» che con le moderne tecniche di restauro sarebbero conservabili e meritevoli di essere mostrati, al fine di creare un autentico «parco nel parco», cioè un parco archeologico incluso in quello naturale della Vena del Gesso.
I prossimi appuntamenti verteranno sul castello di Ceparano (venerdì 18 ottobre, relatore Enrico Cirelli) e sul fenomeno dell’incastellamento nell’Italia medievale (venerdì 25, relatrice Tiziana Lazzari), sempre alle 21.