Antonio Dikele Distefano è autore di Zero, serie Netflix su giovani italiani di seconda generazione dotati di superpoteri

Romagna | 24 Aprile 2021 Cultura
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Federico Savini
«Non amo la parola Diversity, che è l’americano di “diversità” e sottintende un approccio militante alla questione razziale. Figuriamoci se io non ho le mie opinioni sul tema e se non lo prendo sul serio, però una parola che preferisco di gran lunga a “diversità” è senz’altro “normalità”. Credo che Zero debba raccontare questo. È perfettamente normale che presentando questa serie ci si focalizzi molto sul tema del razzismo e dell’integrazione dei giovani italiani dalla pelle non bianca. È la prima serie italiana con un cast quasi interamente di seconda generazione e da questo punto di vista è già storia. Ma il cambiamento vero arriverà quando questa serie sarà “normale”, quando non parleremo del colore della pelle dei protagonisti ma della trama di ogni episodio». È particolarmente lucido Antonio Dikele Distefano nel presentare alla stampa nazionale la serie Netflix Zero, della quale è ideatore e in merito alla quale lo scrittore nato a Ravenna nel 1992 riesce a bilanciare la chiarezza degli intenti (che sono sia sociali che artistici), senza impelagarsi più del necessario nelle implicazioni politiche di una serie che di sicuro farà, e fa già, molto parlare.

LA SERIE
Da mercoledì 21 aprile Netflix ha reso disponibile la serie originale Zero, prodotta da Fabula Pictures con la partecipazione di Red Joint Film e nata appunto da un’idea di Antonio Dikele Distefano. Forte di una colonna sonora trainata dalla canzone omonima Zero, inedito di Mahmood che chiuderà ogni episodio, la serie è in otto episodi e ha quattro registi, tra i quali l’imolese Margherita Ferri, insieme a Mohamed Hossameldin, Paola Randi e Ivan Silvestrini.
Zero racconta di un timido ragazzo con il superpotere dell’invisibilità. Un eroe moderno che impara a conoscere i suoi poteri quando il Barrio - quartiere della periferia milanese da cui voleva scappare - si trova in pericolo.
La serie, che Antonio Dikele Distefano ha anche sceneggiato insieme a Stefano Voltaggio, Massimo Vavassori, Carolina Cavalli e Lisandro Monaco, è tratta dal romanzo dello scrittore ravennate Non ho mai avuto la mia età. «Ma è davvero molto diversa - si è premurato di sottolineare Distefano in conferenza stampa -. All’inizio ero scettico sull’idea di trasporre il libro per la tv. Quel romanzo induce alla riflessione, non mi pareva adatto al cinema. Invece l’esito finale è sorprendente. Questa serie dà molta leggerezza e fa ridere. Il risultato è andato al di là delle aspettative».

L’ISPIRAZIONE
«Omar, il protagonista, è un ragazzo timido che vuole fare il fumettista e spero che si parlerà di lui, più che del fatto che è nero - commenta Antonio Dikele Distefano -. La serie parla di emozioni, non di colore della pelle. Le emozioni sono quello ci accomuna, al di là del fatto che qui si racconti di un adolescente italiano di colore che diventa, suo malgrado, una specie di supereroe. Le ispirazioni vengono un po’ dal mio vissuto ma anche molto dalle mie passioni. Una è quella per i manga e l’animazione giapponese. In particolare mi ha ispirato un personaggio molto anomalo come supereroe, visto che è costretto a trattenere le sue emozioni, perché se le lasciasse andare il suo potere devasterebbe il mondo. L’invisibilità invece arriva da un film, Ferro 3, del compianto regista coreano Kim Ki-duk; anche qui il protagonista è invisibile e usa questo potere per entrare nelle case degli altri e vivere un po’ la loro vita. Per quanto riguarda la mia infanzia, ricordo bene come da bambino avessi chiara l’idea che qualcun altro avrebbe deciso per me, per il mio futuro. Mi sentivo dipendente dagli altri. Troppo dipendente».
Annunciata nel 2019, la serie è stata completata in pandemia. «In realtà ci ha aiutato - spiega Antonio -, perché ci ha dato più tempo. Il gruppo si lavoro si è affiatato e la serie è migliorata, con più tempo a disposizione Il fatto che il protagonista faccia il rider, uno dei simboli della pandemia, dipende in realtà da una decisione pregressa: volevamo mostrare realtà che di solito non vengono raccontate nelle serie italiane e ci serviva un escamotage per collegare i diversi quartieri della città».

LA SECONDA GENERAZIONE
L’enfasi sulla portata storica di una serie come Zero viene enfatizzata forse all’eccesso, per comprensibili ragioni (in particolare l’interesse di Netflix a intrigare le giovani generazioni disabituate al mezzo televisivo), ma è davvero la prima volta che un cast come questo è protagonista assoluto di un prodotto così popolare, trasmesso in 190 Paesi.
«Siamo partiti dalla diffusa idea che non esistano attori e registi neri italiani - spiega Antonio Dikele Distefano -. In realtà esistono eccome e sono semmai le tv e le piattaforme che vanno coinvolte. Sento ancora parlare troppo spesso di “nuovi italiani” ma, francamente, io ho 28 anni e non posso essere “nuovo”. L’idea preconcetta che gli italiani “non siano pronti” al confronto con una realtà multietnica va superata. Il fatto che l’Italia si dimostri sempre un Paese restìo al cambiamento non può essere una scusa. La radio, ad esempio, è scollata rispetto ai veri fenomeni della musica giovanile che divampano in rete. E così è la tv, ma se questa serie avrà successo, a quel punto i grandi media saranno costretti a considerare la realtà e i talenti degli italiani di seconda generazione. Anche la misura del successo cambia il mondo. Nel film One night in Miami è Sam Cooke a spiegare a Malcolm X che le sue canzoni, che piacciono anche ai bianchi, fanno tanto per cambiare la mentalità delle persone, anche se lo fanno con la melodia e non con le proteste in piazza. Zero uscirà in 190 Paesi. Forse i ragazzi neri italiani esisteranno da qui in avanti».
Al netto di questo, Antonio non ama il termine «diversità». «Ci sarà sempre qualcuno che ti chiama “negro” - dice -. La questione vera non è la “diversità” ma la “normalità”. Quando mi sono trasferito in un nuovo quartiere, nei primi giorni vedevo strane occhiate di alcuni vicini di casa, ma nel giro di poco tutti hanno preso confidenza con me, dal barista al titolare della ferramenta. È questa la mia vittoria. Il mio vicino di casa non mi chiamerà mai “negro”, mi chiama Antonio».

IL CAST
A interpretare il protagonista della serie è l’esordiente Giuseppe Dave Seke. «Il paradosso che incarna Omar - spiega - è quello di essere dapprima invisibile in senso figurato, ma poi di diventare una celebrità proprio perché sa rendersi invisibile. Omar capisce che è destinato a fare cose più grandi di quelle che aveva in mente. Può succedere a tutti. Io per esempio ho saputo di essere stato selezionato per i provini proprio il giorno del mio compleanno. Già l’idea di andare a Milano per Netflix era incredibile».
«Prima di Zero avevo già lavorato come attore - aggiunge Haroun Fall, che interpreta Sharif -, ma era difficile trovare dei ruoli. Dobbiamo puntare a rendere anzitutto “normale” la  storia. In fondo Zero racconta la forza di una comunità, che non deve per forza essere quella degli italiani di seconda generazione».
«Antonio dice che “Il mondo si prende cura di te se tu ti prendi cura di lui” - aggiunge Beatrice Grannò, Anna nella serie -. Per questo il messaggio della serie riguarda tutti, a prescindere dal colore della pelle».
«Zero racconterà realtà che nella tv italiana non si sono mai viste - conclude Giuseppe Dave Seke -. Il mondo però è già più avanti, ho visto cambiare tante cose in 10 anni. Mio fratello ha amici che neanche guardano al colore della pelle. Quando io avevo la sua età era più difficile. Condivido con Antonio l’idea che si debba puntare alla “normalità”, perché focalizzarsi troppo sulle battaglie sociali rischia di produrre effetti negativi, di rigetto. La vittoria arriverà quando non dovremo più nemmeno porci il problema».

 
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