Alfonsine, Camelia Barta: "Non chiamatemi badante"

Romagna | 04 Novembre 2020 Mappamondo
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Silvia Manzani
Se digitate il nome di Camelia Barta su Youtube, scoprirete che ha un canale dove pubblica le canzoni di cui è solita scrivere testo e linea melodica. Sono tutte in rumeno e ce n’è una, dal titolo «Pandemia», nella quale sdrammatizza sui chili messi su durante il lockdown, quando è stata costretta a rimanere nella casa in cui lavorava ancor più di quanto non lo facesse già. Cinquantacinque anni, ora vive ad Alfonsine, dove lavora per un’anziana signora allettata: «Sono arrivata in Italia nel 2007. La mia prima tappa è stata in Sicilia, dove ho iniziato subito a lavorare grazie ad alcune conoscenze. Quando sono salita sul traghetto per Messina, ho davvero pensato di trovarmi alla fine del mondo. Il periodo iniziale è stato difficile, non parlavo una parola d’italiano. Quanti pianti mi sono fatta per scaricare il disagio di quei momenti. Per fortuna, poco a poco, grazie soprattutto alla televisione, ho cominciato a parlare e a capire». Negli anni, a seconda del posto in cui trovava un’altra famiglia che l’avrebbe assunta, Camelia è risalita verso Nord, arrivando fino a Treviso: «Ho passato un lungo periodo anche a Frosinone, dove le persone per cui lavoravo sono state così accoglienti da ospitare anche mio figlio, che poi ha vissuto in città, per un po’, anche con moglie e figli». A seconda dei contesti in cui ha prestato servizio, in questi tredici anni Camelia ne ha viste un po’ di tutti i colori: «C’è chi non ti paga, chi ti tratta male, chi ti considera poco perché sei straniera. Ma c’è anche chi porta rispetto per il tuo lavoro e per la tua persona. A me non piace essere chiamata “badante”, preferisco “assistente familiare”. In questo mestiere, se non ci metti l’anima, non vai da nessuna parte. Solo usando il cuore puoi instaurare fiducia con la persona malata che assisti. Se non ti comporti bene, l’anziano si stressa, non dorme, non mangia. Tempo fa, il genero di una donna che assistevo mi ha detto che mai si sarebbe sognato di chiamarmi “badante”, perché noi donne dell’Est che veniamo a lavorare per le famiglie siamo come delle sante mandate da Dio. Quell’uomo è un chirurgo, una persona che ha studiato. E che ha capito benissimo il nostro ruolo». Ma in generale, da fuori, secondo Camelia è difficile empatizzare con un mestiere così particolare e poco raccontato: «Io lo faccio onestamente, con sentimento. Vorrei, in cambio, un po’ di riconoscimento e gratitudine. Pochi capiscono cosa significa lavorare a migliaia di chilometri da casa, lasciare i figli, non avere un armadio, una stanza per sé. Io al momento mi trovo bene ma le difficoltà sono tante: quando si arriva in una nuova famiglia bisogna adattarsi molto, entrare nelle abitudini, farsi accettare». Quasi ogni giorno, nel primo pomeriggio, quando stacca per due ore, Camelia raggiunge altre donne rumene o ucraine che fanno il suo stesso lavoro in un bar di Alfonsine: «Loro sono il mio punto di riferimento. Insieme si chiacchiera, si fanno due risate, si prende un caffè. Senza, sarebbe durissima». 
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