«Ravenna, una seconda Roma» di Alessia Lucarini - 4HL Liceo Dante Alighieri (Ravenna)

Ravenna | 23 Dicembre 2021 Dante700
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Facciamo un salto indietro nel tempo di più di 700 anni, ritrovandoci così nel 1320, nell’accogliente dimora di Dante Alighieri.

Seduta di fronte al creatore della lingua italiana, lo osservo bene e percepisco immediatamente che è un uomo di grande cultura; nella stanza vi è una scrivania stracolma di fogli svolazzanti e di volumi di testo, e con grande onore inizio l’intervista.

Sommo Poeta, sappiamo che voi siete nato a Firenze nell’anno 1265. Successivamente vi avete trascorso la vostra vita fino al 1301, quando i Guelfi Neri presero il potere e veniste bandito dalla città per la vostra attività politica tra gli oppositori, i Guelfi Bianchi. Foste condannato con l’accusa di baratteria al pagamento di una multa e alla requisizione dei beni, ma non essendovi presentato, la condanna divenne a morte. Così iniziò il vostro esilio, che vi porta fino ad oggi. Come trascorreste questi anni, dove vi rifugiaste?

«Fanciulla, dovete sapere che appresi della condanna mentre mi trovavo presso Roma come ambasciatore. Non ebbi mai la possibilità di tornare nella mia patria e così iniziò il mio girovagare per l’Italia settentrionale. Inizialmente mi recai a Verona, accolto dal buon Signore Bartolomeo Della Scala presso il quale soggiornai due anni, fino al 1304. Successivamente errai tra Treviso, Bologna, Forlì e Padova, per stanziarmi poi in Lunigiana, presso i Malaspina, ospite del Conte Marcello. A seguire Lucca, Porciano e persino Parigi, al di là delle Alpi. Quando venni a conoscenza della discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1310, mi sentii molto fiducioso, intravedevo nella sua figura la speranza di una rappacificazione della nostra nobile penisola e per me la possibilità di rientrare nella mia Firenze. Ma con la sua morte nel 1313, si spensero anche le mie speranze e mi avvidi del fatto di dovermi rassegnare a non rivedere la mia patria. Così accolsi l’invito di Cangrande della Scala e giunsi nuovamente a Verona, sotto la sua protezione e sicurezza. Per concludere, nel 1318, sopravvenni a Ravenna, dove, come potete notare, mi ritrovo attualmente. Qui sono ospite del Signore Guido Novello da Polenta».

Parlando proprio di Ravenna, mia città natia, cosa ne pensate della cittadina?

«Ritengo che Ravenna sia una urbe molto graziosa, sono solito definirla “seconda Roma” per il suo glorioso passato legato all’Impero Romano d’Occidente e la magnificenza dei suoi monumenti e mosaici. In aggiunta, in questo centro percepisco una tranquillità, serenità e ispirazione di cui beneficiano i miei scritti ed il completamento del ciclo della Commedia. Palazzi, strade, basiliche, biblioteche, monumenti: l’intero territorio ha influito sulle immagini che narro in alcuni canti dell’opera. Ivi risiedono anche diversi amici miei tra i quali mi permetto di citare Pietro Giardini, e Fiduccio de’ Milotti, anch’egli esule fiorentino. Questa città mi sta donando molto, e in cuor mio spero che altrettanto io possa lasciarle».

Quali sono i luoghi a voi più cari, Sommo Poeta, del centro abitato?

«Sempre caro nelle mie memorie sarà il Palazzo dei da Polenta, luogo del mio soggiorno, il convento di Santo Stefano degli Ulivi, che ha accolto la mia amorevole figlia Antonia come monaca domenicana con il nome di Suor Beatrice, la Pineta di Classe, ove mi delizio con passeggiate meditative ed è situato il querceto che mi ha ispirato per la Divina foresta spessa e viva che cito nel XXVIII canto del Purgatorio. Senza dubbio, trovano un posto nel mio cuore le maestose e magnifiche basiliche di Sant’Apollinare e San Vitale, dai cui affreschi e mosaici ho attinto volti e storie da inserire nell’ultima mia cantica tuttora in elaborazione, il Paradiso, ed infine il Mausoleo di Galla Placidia, che mi rasserena sempre con i colori e le luci calde e soffuse dei suoi mosaici paradisiaci».

Un’ultima domanda, “ghibellin fuggiasco”. È noto che nel maggio 1315 il governo dei Guelfi Neri avesse introdotto un’amnistia rivolta agli esuli di parte bianca. Perché voi avete preso la decisione di non rientrare nella vostra Firenze?

«Vi risponderò, fanciulla, facendo riferimento all’Epistola XII indirizzata ad un amico fiorentino. A noi esuli di fazione bianca è stato offerto di rientrare nella gran villa imponendoci il pagamento di un’ammenda e di sottoporci ad una cerimonia di pubblica penitenza poco dignitosa, anzi umiliante. Mi sono sentito in dovere di rifiutare in quanto sempre mi sono dichiarato innocente e non ho intenzione alcuna di ammettere colpe non mie, tanto più pagando del denaro a chi mi ha fatto oggetto di un'ingiustizia. Accettare avrebbe implicato un riconoscimento di errori che non ho commesso, andare contro i miei stessi principi e dare soddisfazione ai miei nemici e rivali. Per la qual cosa non mi pento della mia decisione, anzi ne vado sempre maggiormente fiero».

Vi ringrazio del vostro tempo, Sommo Poeta, e vi riverisco.

Ora sono pronta a tornare nell’anno 2021 per scrivere l’intervista in occasione del settecentenario della vostra morte.

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